"Rievoco la Grande guerra nel dialetto di tre soldati"

L'attore presenta la pièce per il centenario del primo conflitto: "È il sentimento di un popolo che aspira a uno Stato unico"

"Rievoco la Grande guerra nel dialetto di tre soldati"

Lo scorso anno aveva avuto successo l'evocazione del suo Nerone rivalutato come vittima del potere. Adesso Edoardo Sylos Labini è alle prese con un nuovo copione: La grande guerra di Mario dedicato alla Grande Guerra.

Questo brusco cambio di prospettiva, gli chiediamo, nel centenario di quell'evento epocale che determinò la definitiva unificazione dell'Italia, in cosa consiste.

«Chiarisco subito che, per quanto mi riguarda, non c'è nessuna differenza tra i precedenti personaggi da me interpretati come d'Annunzio o Italo Balbo che volevano calare il loro sogno nella realtà dei fatti e ciò che succede in questa pièce dove un intero popolo spera sotto un'unica bandiera di sentirsi fautore di uno stato non ancora compiuto».

Ciò che sorprende in questo testo è l'ipotesi che ogni soldato si esprima nel suo dialetto natale.

«Certo perché il verso romanesco di Trilussa e il ricordo di Salvatore di Giacomo si confondono in un unico linguaggio».

Può dirmene la ragione?

«È semplicissimo. Oggi tutti noi parliamo la lingua cui ci ha abituato prima la radio e poi la televisione. Mentre all'epoca del conflitto, solo le classi alte potevano permettersi le espressioni che trovavano sui libri e sui giornali. Le ricordo che il settanta per cento della popolazione era analfabeta e quindi la poesia dialettale, che spesso si mutava in canzone, era l'unico veicolo in cui si riconosceva l'Italia tutta. E che le esternazioni di Trilussa contro il Papa padrone e dei poveri militi contro il sistema rappresentato dalla monarchia erano l'unico mezzo che permetteva ad ognuno di riconoscersi nell'altro».

Ma nel suo copione c'è ben di più...

«Infatti, per la prima volta, dei giovani italiani, mandati al macello dall'ignavia dello Stato Maggiore si scambiano affetto, amicizia e solidarietà. E inoltre si affaccia il let motiv dell'emigrazione col mito dell'America identificata come sorgente di libertà e di ricchezza».

E chi ne è portavoce?

«Gisa la prostituta (interpretata da Debora Caprioglio). Da noi identificata come la crocerossina».

In senso ironico?

«Tutt'altro perché l'unica donna che offre il suo corpo alla truppa è a suo modo un'infermiera, che come una madre o una sorella cura nei soldati le ferite dell'anima e della solitudine».

Per questo motivo Gisa, prima di scegliere Mario come compagno di fuga, tenta di corrompere la spia austriaca perché le procuri dei documenti falsi?

«La Gisa è l'altra faccia del popolo italiano. Ma l'italianità, nel suo caso, agli occhi del nemico deve comprendere ben altrimenti rispetto al tradimento del corpo, perché per sfuggire dal paese in guerra è costretta a promettere i piani d'attacco delle truppe italiane».

E se la donna riesce a salvarsi, sarà il soldato a rimetterci, non è vero?

«Certamente, perché i disertori, come gli assassini, sono tutt'altro che sprovvisti di un codice d'onore».

Una via d'uscita che condanna Mario alla fucilazione facendolo diventare un eroe.

«Mario, con la sua fine, si riscatta dal cinismo di cui si è fatto scudo fino a quel momento».

Nella sua ricerca è stato influenzato dal film di Monicelli?

«Con Angelo Crespi, autore del testo, abbiamo ammirato quel film ma operato in modo diverso».

Ci spieghi.

«Monicelli aveva puntato tutto su due protagonisti assoluti come Gassman e Sordi. Ma con una differenza sostanziale. Nel film Sordi muore da imbelle mormorando: “Non uccidetemi sono un vigliacco“. Mentre nel nostro spettacolo Mario proclama a voce alta: “Ve lo faccio vedere io come muore un italiano“. Tutto questo con l'ausilio di Debora Caprioglio (la Gisa), attorniata da Marco Prosperini (il Capitano), Francesco Cordella (il soldato napoletano) e Gualtiero Scola (il soldato brianzolo). Mentre il nemico è Giancarlo Condé (la spia austriaca)».

Un'ultima domanda: come definirebbe il suo spettacolo?

«Un'elegia moderna dove ogni voce si afferma con il potere devastante di un grido».

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