«Ho sempre pensato che avrei ucciso me stesso prima di uccidere chiunque altro». È spaventoso, cupo e profetico ciò che disse Kurt Cobain a Jon Savage in quella che è la sua intervista testamento, la confessione a cuore aperto prima di chiudere per sempre l'anima e premere il grilletto. «A scuola ero così antisociale da diventare quasi pazzo». Notte fonda, luglio 1993. Sembra ieri. Lui, l'antidivo suicidato dal divismo sconnesso, cantante dei Nirvana e di una generazione di rockettari che spazzarono via tutto, anche loro stessi. L'altro, il giornalista scrittore simbolo del punk rock. Ora il magazine Mojo pubblica la chiacchierata perché a metà settembre saranno vent'anni esatti dall'ultimo disco dei Nirvana, quello che sancì una fine ma paradossalmente si intitolava come un inizio: In Utero. Uscirà un cofanetto con la tracklist originale e con, naturalmente, una vendemmia di rarità, la risposta inconscia ma voluta alla produzione eccessivamente patinata (secondo loro) di Nevermind, il disco che due anni prima cambiò la storia della musica. «Troppo liscio, non ascolto quel tipo di album a casa», confessa qui Cobain. «Dopo averlo registrato Kurt non credeva rappresentasse il suono della band», dice oggi Dave Grohl, che è l'unico vero sopravvissuto musicale del trio visto che ha avuto un successo straripante pure con i Foo Fighters. E l'altro Nirvana, ossia Krist Novoselic, che ha lentamente sostituito la musica con la politica, conferma di aver impiegato vent'anni per accettare che invece «era un grande disco».
Kurt Cobain non ha avuto tempo di ragionarci su, visto che nel 1994 si sparò con un fucile a pompa nella serra di casa vicino al Washington Lake, a pochi chilometri da Seattle.
Ma aveva iniziato a morire molto prima, prima ancora di accorgersi che Smells like teen spirit fosse diventato un inno generazionale o che Vanity Fair definisse crudelmente lui e sua moglie Courtney Love come i nuovi «Sid e Nancy» (Sid Vicious era il bassista dei Sex Pistols stecchito da una overdose nel '79). E questa intervista è il romanzo della sua agonia, la cronaca di una morte annunciata nella cinica indifferenza di quasi tutti. «Dopo il divorzio dei miei genitori sono diventato asociale. Volevo disperatamente una famiglia classica. Madre. Padre». In un paesetto piccolo così e per di più misogino come Aberdeen, Kurt Cobain implode prima di esplodere come rockstar. Nonostante avesse ascoltato Led Zeppelin e Aerosmith, realizzò che «avevano troppo a che fare con il sesso e mi annoiavano». Si innamorò del punk di Black Flag e Flipper, suoni drastici, testi nichilisti. Era un punk, Cobain, nell'epoca dei Guns N'Roses, ossia musicalmente ai margini. «Ho persino pensato di essere gay e che quella poteva essere la soluzione ai miei problemi»: e difatti nel brano All apologies, proprio da In Utero, canta quel «Tutti sono gay» che tirò giù il muro dell'omofobia anche nel rock.
Non riuscì mai a capire fino in fondo quanto il verso fosse stato importante. Era appena germogliato con i Nirvana: il successo mondiale gli seccò le radici. «Quando tornai a casa (dopo il tour di Nevermind, ndr), un mio amico fece una compilation dei servizi di Mtv e delle tv locali su di noi, era terrorizzante, mi spaventò». Poi nacque Frances Bean (oggi ha 21 anni) e «decisi di uscire dal mio guscio e accettare la fama», disse quella notte a Jon Savage. Macché. Era demolito da un mal di stomaco psicosomatico che lo trafiggeva «proprio dove nasce la mia voce». Allora decise che «avrei potuto assumere una sostanza che uccideva quel dolore». Ecco. «Mi sono iniettato eroina per circa un anno», ammise poco dopo, tra una critica al produttore Steve Albini («Un buon ingegnere del suono, ma terribile al missaggio, la mia voce è sempre bassa»), una ad Axl Rose e un'altra alla polizia che aveva appena sequestrato armi nella casa: «Una cazzata totale». Ma non era solo Steve Albini a sentir male la sua voce. Neanche Kurt Cobain riusciva a decifrarla: «È come se la gente non mi credesse, come se fossi un bugiardo patologico» Il giorno dopo l'intervista andò in overdose.
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