A dirla brutalmente, la svolta intimista del cinema passa attraverso le disgrazie. Ma, scongiuri di rito a parte, non è detto si tratti di sventure tout court, di storie di gatti neri e bicchieri sempre mezzi vuoti. Anzi, in alcuni casi possono persino essere faccende dure da digerire ma che, alla lunga, regalano qualche preziosa eredità. Che, ecco la sorpresa, arrivano dai rapporti personali, dagli affetti, dai familiari con i quali, durante e dopo i momenti difficili, si riscoprono nuove solidarietà e nuove risorse. In un certo senso, casca a pennello la sintesi del rapporto Censis su «I valori degli italiani» diffuso ieri, in cui si parla di un popolo di «individualisti pentiti» che «riscoprono le relazioni» e ritengono la famiglia il «primo valore» da difendere. Forse il cinema internazionale - francese orientale americano - se n’era accorto da un po’. Del resto la crisi economica è planetaria e tutti stiamo realizzando che il consumismo come scorciatoia per il benessere non funziona più. Siamo tutti più fragili e viviamo un senso di precarietà maggiore. E allora, forse, il cinema ha scelto l’esperienza della malattia o della vecchiaia per rappresentare questo nuovo stato d’animo e una possibile via d’uscita.
Il film rivelazione del momento (secondo dietro a Posti in piedi in Paradiso di Verdone) è il francese Quasi amici, ispirato alla storia di Philippe Pozzo di Borgo, il nobile patron della casa di champagne Pommery, vedovo e poi paralizzato dal collo in giù a causa di un incidente in parapendio. Quando c’è da scegliere il nuovo badante dopo che il precedente si è «rimesso a bere», la preferenza di Philippe (François Cluzot) cade su Driss (Omar Sy), sfrontato senegalese dalla pelle color cioccolato, più che mai irriverente nei confronti delle convenzioni dorate e dei conformismi buonisti nei quali vive il suo facoltoso e handicappato datore di lavoro. Così, fra trasgressioni adrenaliniche, complicità goliardiche e infrazioni (innescate dal selvaggio africano) del protocollo aristocratico (dell’ingessato mondo europeo), l’esistenza di Philippe prende a decollare nuovamente, anche senza bisogno del parapendio (l’autobiografia di Pozzo di Borgo s’intitola Il diavolo custode, Ponte alle Grazie).
È piuttosto amaro, invece, il paradiso nel quale vive Matt King, avvocato con villa alle Hawaay bruscamente costretto a riscoprire le proprie responsabilità di padre allorché la moglie, praticando lo sci nautico, resta vittima di un incidente mortale. E mentre lei è ancora tenuta in vita dai macchinari, lui scopre dalla scombinata figlia primogenita che la consorte lo tradiva e stava per chiedere il divorzio. In Paradiso amaro sono il tocco di Alexandre Payne e la recitazione di George Clooney e di Shailene Woodley (la teen ager americana del Diario segreto) a farci immedesimare nelle dinamiche di una discesa al fondo di se stessi e di una risalita aggrappati alla solidarietà reciproca tra chi ha dovuto fronteggiare il ciclone della morte improvvisa di un proprio congiunto.
Ancora più toccante, nella sua semplicità, la vicenda di Ah Tao (Deanie Ip, coppa Volpi all’ultima Mostra di Venezia), la tata protagonista di A simple life, l’opera diretta da Ann Hui appena uscita nei nostri cinema. Vi si narra la storia vera di un produttore cinematografico, ultimo membro rimasto a Hong Kong di una famiglia assistita per generazioni dalla minuta domestica che, ora settantenne, è costretta a ricoverarsi in ospizio a causa di un problema cardiaco. Adesso è lei ad aver bisogno di assistenza e di quelle attenzioni di cui è stata per decenni silenziosa dispensatrice nella casa dei «padroni».
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