Cultura e Spettacoli

Prima visione

L’apogeo dei western fu tra la metà anni Quaranta e i primi anni Sessanta, un quarto di secolo quando a scriverli erano gli autori anche dei noir o dei polizieschi, come per esempio Elmore Leonard.
Ed Harris, che lo sa, ha scelto per soggettista del suo Appaloosa Robert Parker, il continuatore di Poodle Springs di Raymond Chandler. E sono proprio i dialoghi alla maniera di Chandler il punto di forza di Appaloosa: Ed Harris li ha preservati per lo più invariati dal romanzo omonimo: dunque sono secchi, ironici, volentieri taglienti. Lo stesso Harris interpreta uno sceriffo in età nel Nuovo Messico del 1882, insieme a un ex ufficiale di cavalleria, l’altrettanto sobrio Viggo Mortensen.
Innanzitutto non siamo nel West di Sergio Leone, fasullo nei personaggi anche quando autentico negli interpreti. Il West di Harris è vero, quindi di percepibile gayezza, perché non c’erano donne che si accompagnassero volentieri a dei girovaghi che potevano essere morti di lì a poco senza lasciare alcuna eredità, salvo cavallo e sella.
Nel triangolo fra sceriffo, vicesceriffo e una pianista (Renée Zelwegger) in cerca di un uomo che la domini e domini gli altri, lei è sempre a disposizione di chi, anche momentaneamente, prevalga nella lotta per l’esistenza. Di fedele c'è solo l’amicizia virile, fedele fino all’amore.
Il taciturno personaggio di Mortensen ama con discrezione il taciturno personaggio di Harris: «Sono una vecchia coppia che cavalca insieme da una dozzina d’anni», li definì a Roma lo stesso Harris. Fra i due, sarà il personaggio di Mortensen a sacrificarsi per l’altro, togliendo di mezzo il cattivo (Jeremy Irons), che è soprattutto il concorrente di Harris per le grazie sfiorite della Zelwegger. Eppure siamo lontani da Brokeback Mountain di Ang Lee.


Chi saprà capire, apprezzerà, riconoscendo come archetipi certi personaggi di Randolph Scott mezzo secolo fa; chi non capirà, o non vorrà capire, potrà invidiare un’amicizia che nessuna astuzia femminile offusca.

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