Ma uno spinello non è Brunello di Montalcino

La tesi più stolta accampata dagli antiproibizionisti per assolvere il libero consumo di stupefacenti è la seguente: le droghe leggere non hanno mai ucciso nessuno, e comunque l’alcol provoca molti più morti. La cronaca nera dell’ultima settimana s’è incaricata di smentire con spettacolare crudezza questa balordaggine. Un autista di pullman esce di strada e ammazza due alunni in gita scolastica: la sera prima aveva fumato hashish. Tre albanesi sequestrano i passeggeri di una corriera di linea, feriscono, rapinano, incendiano: erano strafatti di cocaina. Uno studente quindicenne stramazza privo di vita sul pavimento: tra una lezione e l’altra s’era concesso uno spinello in quello che gli allievi dell’istituto tecnico chiamano «il corridoio delle canne».
Eppure, all’indomani della prima tragedia, il ministro della Solidarietà sociale (che truffa semantica) Paolo Ferrero ha avuto il coraggio di replicare a Letizia Moratti, sindaco di Milano, che invocava un giro di vite: «Che cosa direbbe se risultasse che l’autista del bus aveva bevuto troppo? Forse che si deve proibire il vino?». In perfetta sincronia, segno che nel governo Prodi almeno sull’imprevidenza c’è accordo, anche Livia Turco, ministro della Salute, ha voluto farci udire il suo verbo: «Sono vicina a quelle madri, al loro dolore. Ma non strumentalizziamo la loro atroce sofferenza. E soprattutto non siamo ipocriti. In Italia si demonizza la cannabis e si considera invece parte della nostra cultura il vino. Eppure è l’abuso di alcol che provoca ogni anno migliaia di morti sulle strade».
A parte che i consumi di vino tra il 1986 e il 2006 si sono ridotti da 68 a 48,8 litri pro capite (-28,2%) e che secondo l’Istat le bevande più diffuse tra i 18 e i 24 anni sono gli aperitivi (48%, in aumento del 19%) e tra gli 11 e 17 anni la birra (19,1%) e i cocktail (15,7%), prodotti che non fanno certo parte della nostra cultura, va bene, ammettiamo pure che il mosto d’uva fermentato sia la piaga delle piaghe sin dai tempi di Noè. In ossequio a quale folle par condicio la premiata ditta Turco & Ferrero si sta dannando l’anima per aggiungervi anche il flagello degli stupefacenti?
Chi sia provvisto di un minimo di coscienza, non può ammettere un impiego ricreativo della droga. A differenza del vino, che bevuto con moderazione fa bene, la droga assunta in qualsiasi quantità fa sempre male. Peraltro va ricordato che in Italia la vitivinicoltura dà lavoro a 700.000 persone (1.200.000 con l’indotto), concorre al sistema economico con un fatturato complessivo di oltre 20 miliardi di euro, versa al fisco quasi 6 miliardi di tasse (fonte: Unione italiana vini). Le vigne rappresentano il 41,6% delle coltivazioni permanenti nel nostro Paese. Che vogliamo fare? Chiudiamo le imprese e ci mettiamo a riconvertire quasi la metà dei terreni agricoli, a cominciare dalla zona del Montalcino? Lo sanno o no, questi strenui difensori del Mezzogiorno, che oltre un terzo delle aziende viticole si trovano nelle regioni meridionali, già penalizzate dalla povertà e dalla mancanza di lavoro?
È vero: purtroppo, rivela l’Istat, l’8,4% degli italiani dagli 11 anni in su confessano d’essersi ubriacati almeno una volta negli ultimi 12 mesi, il 50,4% fino a tre volte, il 15,1% fino a sei volte, l’11,1% fino a 12 volte e il 7,7 addirittura più di una volta al mese. Resta il fatto che il mercato della droga mantiene unicamente se stesso, e cioè i narcotrafficanti colombiani, i boss della mafia siculo-americana, i signori della guerra e dell’oppio afgani, i corrieri internazionali, gli spacciatori al dettaglio. Per cui, se non altro, l’alcolismo appare assai meno criminogeno della tossicomania.
Il ministro della Salute potrà obiettare che persino Lancet le dà ragione. Autorevole e prestigioso sono due aggettivi d’obbligo quando si cita il settimanale di medicina clinica pubblicato a Londra fin dal 1823 (peccato che in italiano la testata si legga Bisturi, come il titolo del programma tv che Irene Pivetti conduceva con Platinette: ci sarà da fidarsi?). Di recente la rivista ha pubblicato un rapporto sulle 20 sostanze più dannose per l’organismo redatto da alcuni studiosi britannici. Stando a questa classifica – che vede al primo posto l’eroina, seguita da cocaina, barbiturici e metadone – l’alcol (5° posto) è più nocivo delle benzodiazepine tipo il Valium (7°) e delle amfetamine (8°), mentre il tabacco (9°) supera in pericolosità la cannabis (11°), i solventi (12°), l’acido lisergico o Lsd (14°) e perfino l’ecstasy, che figura al 18° posto.
Forti di questa graduatoria, gli «esperti indipendenti» sostengono che l’attuale sistema di classificazione delle droghe adottato da governo, magistratura e forze dell’ordine inglesi non tiene conto dei dati scientifici oggettivi e dunque va radicalmente rivisto. Per farla breve, provocherebbe più guasti a se stesso e alla società chi esagera con l’Amarone, le Muratti e il Tavor di chi fuma canapa indiana, assume allucinogeni e s’impasticca con l’ecstasy.
Non discuto, avranno senz’altro ragione loro che hanno studiato. Senonché nella stessa settimana in cui è uscita questa indagine su Lancet, altri esperti indipendenti per definizione, e cioè i giornalisti dell’Independent, quotidiano britannico non certo sospettabile di conservatorismo visto che nel suo azionariato annoverava gli editori della Repubblica e del País, sono usciti nella loro edizione domenicale con questo titolone in prima pagina: «Se solo avessimo saputo allora quello che possiamo rivelare oggi». Seguiva un mea culpa per aver condotto, nel 1997, una martellante campagna a favore della depenalizzazione della cannabis. Il giornale promosse persino una manifestazione pubblica in Hyde Park per costringere il governo Blair a declassare la marijuana a stupefacente di categoria C. Si voleva che il consumo personale di questa droga non fosse più un reato punibile con l’arresto. È la stessa linea seguita in Italia, a dieci anni di distanza, dal ministro Turco, che pretenderebbe di aumentare per decreto legge da 500 milligrammi a un grammo la quantità massima di cannabis consentita, ciò che conferma come per certa gente il tempo passi invano.
Ma poiché gli spacciatori sono invece molto più lesti dei politici nel perseguire i loro malefici obiettivi, si dà il caso che gli spinelli di oggi contengano – lo ha denunciato lo stesso Independent on Sunday – una quantità di Thc (tetraidrocannabinolo, l’ingrediente psicoattivo) 25 volte maggiore rispetto al passato. Per cui se dieci anni fa nel Regno Unito soltanto 1.600 persone erano in cura per abuso di cannabis, oggi sono 22.000 (un incremento del 1.275%), la metà dei quali di età inferiore a 18 anni. Il professor Robin Murray del London institute of psychiatry ha calcolato che almeno 25.000 dei 250.000 schizofrenici della Gran Bretagna, quindi un decimo del totale, avrebbero evitato di ammalarsi se non avessero fumato cannabis. E l’80% di coloro che hanno avuto un episodio di schizofrenia facevano un forte uso della marijuana che il ministro Turco vorrebbe garantire in libera distribuzione.
Esemplare, anche se tardivo, l’autodafé nell’editoriale dell’Independent: «Oggi la minaccia alla salute mentale deve avere la precedenza sugli istinti liberali di allora». Esatto. Qui si sta parlando di un’intera generazione, l’attuale, esposta al rischio dell’ebetudine perpetua, dei disturbi psicotici, di un’alterazione profonda e permanente del rapporto con la realtà, della dissociazione mentale. In una parola, disintegrata.
Può darsi che i parametri di valutazione del danno presi in considerazione dagli «esperti indipendenti» di Lancet siano quanto mai oggettivi e del resto mi pare ovvio che il consumo di alcol e tabacco facciano registrare, data la loro massiccia diffusione, una mortalità superiore a quella dell’Lsd. Ma ci sono tanti modi per uccidere un’intera società e il primo di questi è accreditare fra i giovani l’idea che su una scala da 0 a 3 la pericolosità del vino sia prossima a 2 e quella dell’ecstasy spacciato nelle discoteche di poco superiore a 1, come ha fatto la rivista britannica.

Che non a caso, al 20° e ultimo posto, collocava il qat. Forse l’obiettivo finale è proprio questo: ridurre i nostri figli a un branco di rincoglioniti che masticano foglie dalla mattina alla sera, come nello Yemen.
Stefano Lorenzetto
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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