Lo sport di Stato e il muro resistono soltanto in Italia

Guardando oltre il muro credevamo di avere riscoperto lo sport di Stato. Apparteneva ai regimi, era il nostro alibi dinanzi alle sconfitte, era il loro peccato confortato da mille vittorie, roba che puzza di caserma, di camerate ammuffite e, infine, di siringhe dopanti. Berlino era la stazione della vergogna e dell’umiliazione, i vopos cancellavano la libertà degli uomini e delle donne, alcune di queste trasformate, non meglio e bene identificate, il resto era buio, era silenzio. Venne poi un’altra Berlino, sarebbe diventata la tappa del nostro trionfo mondiale, nel football.
Basta riflettere, tra un gol e l’altro, per rendersi conto che lo sport di Stato esiste e resta fondamentale nel nostro Paese, discipline non da regime semmai da reggimento, in un socialismo meno reale ma pieno di reality, nemmeno scherzando troppo. L’Italia dei gruppi sportivi militari e dei corpi dello Stato, Fiamme gialle, Fiamme azzurre, Fiamme oro, Vigili del fuoco, Carabinieri, Marina e Aeronautica, Polizia penitenziaria, atleti di ogni arma, ori, argenti, bronzi alle Olimpiadi e ai campionati europei e mondiali, cronaca e storia del nostro sport, dilettanti non allo sbaraglio ma in divisa di appartenenza, stipendiati, poco e male, dallo Stato, dunque da noi stessi cittadini, un esercito di volontari, ausiliari, soldati dell’atletica, del canottaggio, del sollevamento pesi, della boxe e della scherma, militi dei tuffi, del nuoto, del judo e del tiro, poliziotti e carabinieri non più odiati, insultati, derisi nelle barzellette ma esaltati e celebrati in occasione dell’evento, eroi per caso e di comodo, tuttavia trascurati e poi dimenticati il giorno appresso il trionfo, la medaglia, la vittoria, la passerella dinanzi al capo dello Stato, il titolo onorifico, il cavalierato, una pergamena e la fotografia di gruppo.
Il Coni incassa e porta a casa, vive e regna su e con questo esercito senza armi, gli italiani del jogging, e i palestrati con il gel sopra e dentro la testa, non sanno ma partecipano alla festa, sventolano il tricolore e strillano tanto per fare casino di piazza.
Soltanto il calcio se ne frega, non ha bisogno delle fiamme gialle, azzurre, oro, ha i suoi fuochi fatui personali, privilegiati, esclusivi, viaggia in top class, allo Stato chiede favori, spalma le tasse, è coperto di debiti, chiagne e fotte, spaccia l’allenamento per lavoro, esige, si chiude nei suoi bunker di cachemire. Ognuno si merita il muro che ha, basta farsi un giro nei vari campi di lavoro (stavolta direbbero di allenamento, no?) per capire che cosa voglio intendere, basta tentare di avvicinarsi a un calciatore, a un allenatore ed ecco che tornano i vopos, miserabili guardie dell’ovvio, ecco che rispunta il muro, vero e proprio, eretto per non svelare verità epocali, scoperte della scienza umana, segreti dell’universo, kamasutra tattici smascherati al primo autogol. Nel mondo della sedicente comunicazione, ipertecnologica, cibernetica, iphonica, trionfa l’incomunicabilità, finite le interviste faccia a faccia, sfilano le facce e basta, un battito di ciglio, un mormorio o un colpo di tosse diventano l’unico appiglio per un lungo articolo di fondo.

Basta cambiare disciplina e si passa dallo sport di Stato allo stato dello sport, quello nostrano, il football dico, laddove anche la nazionale militare è scomparsa dagli almanacchi per lasciare il posto, nelle cronache dei giornali e delle televisioni, a rappresentative più gloriose come la nazionale dei cantanti, quella dei ristoratori e quella, ovviamente la più onorevole, dei parlamentari. Allegria.

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