Roma - L'altroieri è stato un giorno molto importante nella storia recente della Roma, che lunedì affronterà il sorteggio degli ottavi di Champions nientemeno che da testa di serie. Lo è stato perché più di sei anni fa, quando gli americani acquistarono il club, lo fecero imponendosi due obiettivi: dotarlo di uno stadio di proprietà e condurlo in una dimensione internazionale. Fino a quel momento la Roma era sempre stata in mani italiane, spesso romane, e a un profondo radicamento sul territorio non era mai corrisposta una globalizzazione del «brand» all'altezza di una capitale europea.
Il primo impatto dei nuovi proprietari col calcio internazionale, oltretutto, fu drammatico: le prime due partite ufficiali - era l'estate del 2011 - decretarono l'eliminazione dall'Europa League nei preliminari contro lo Slovan Bratislava e da allora iniziarono tre lunghi anni di assenza dalle coppe europee. I giallorossi ci rimisero piede solo nel 2014-15 incassando peraltro una doppia eliminazione: prima quella nel girone di Champions, macchiato anche da un tragico 1-7 col Bayern Monaco, e poi quella in Europa League per mano della Fiorentina che scatenò il processo sommario ai giocatori sotto la curva sud.
L'anno dopo la Roma arrivò fino agli ottavi di Champions ma senza evitare un'altra umiliante goleada (1-6 al Camp Nou col Barcellona), e quello dopo ancora - cioè l'anno scorso - cadde rovinosamente nei preliminari col Porto per poi uscire anzitempo anche dall'Europa League. Insomma fino a poco fa tutta la smania di uscire dalla circonferenza angusta del Raccordo Anulare si traduceva più in apparenza che in sostanza: un presidente americano, un capitano famoso, uno sponsor tecnico globale, tantissime partnership con multinazionali di prestigio, una comunicazione «social» sempre più rivolta ai simpatizzanti stranieri, amichevoli estive ultra-patinate, ma al dunque un mesto anonimato sul palcoscenico continentale.
La vittoria di un girone in cui c'erano due pesi massimi come il Chelsea e l'Atletico Madrid rappresenta quindi il primo vero segnale forte della nuova Roma fuori dai confini della serie A, ed è significativo che sia arrivata proprio nel giorno in cui il progetto del nuovo stadio che sorgerà a Tor di Valle ha ottenuto l'ok di massima che ne rende pressoché certa la realizzazione. Ci sono voluti più di sei anni pieni di scelte prima sbagliate e poi giuste, di tanti bocconi amari e di qualche piazzamento d'onore senza trofei alzati al cielo, ma adesso, per la prima volta, gli obiettivi di James Pallotta iniziano davvero a prendere forma.
«Lavoriamo affinché raggiungere risultati del genere sia sempre più normale - ha detto ieri il dg Mauro Baldissoni - dobbiamo smettere di dirci che serate europee di un certo tipo per noi sono una rarità e non viverle come un qualcosa di eccezionale. Quanto allo stadio, l'obiettivo è avviare i cantieri tra fine aprile e inizio maggio, ci vorranno tra i 26 e i 28 mesi. Contiamo di trasferirci lì per la stagione 2020-21».
Per portare la Roma nel futuro e al centro dell'Europa la strada è ancora lunga (ieri ha rinnovato Perotti fino al 2021, ndr), ma dopo anni di smarrimento la lupa giallorossa vede finalmente una direzione e ha iniziato a muovere i primi passi.
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