Marco Lombardo
E adesso che ha fatto venti magari c'è chi spiegherà comunque che Roger Federer non ci mancherà il giorno che avrà deciso di mettere fine alla magìa. Poi ci diranno anche che il tennis va avanti, che lo sport vale più dei suoi campioni, pur grandi che siano stati. Eppure non troveranno più un aggettivo per definirlo, Roger; un superlativo per ricordare il momento in cui ha alzato la sua ventesima coppa di un torneo assoluto, ovvero l'attimo in cui tutto sarebbe già dovuto essere finito da tempo, almeno secondo pronostico. E invece: «Da Perth, dodici mesi fa, ad oggi, è stato un lungo viaggio. E questa è la fine di una favola». Il titolo è Da 17 a 20 Slam in soli dodici mesi. Ma non è, per fortuna, ancora la fine di una Grande Storia. La sua storia. La nostra storia.
Piangevano tutti ieri - anzi, diciamolo, piangevamo - quando a Melbourne Roger non è riuscito a finire il suo discorso da vincitore: i singhiozzi si erano fatti più forti, e il merito di Marin Cilic è stato quello di aver reso la finale del ventesimo trionfo, il sesto agli Australian Open, una delle più difficili di sempre. Almeno emotivamente, perché Federer l'ha vinta tre volte e l'ha persa almeno due. Perché ad un certo punto il peso degli anni - di quegli anni che tutti tempo fa gli facevano notare con perfidia - sembrava riaffacciarsi: da 3-1 al quarto a 3-6, col vento alle spalle di Cilic. E invece Roger si è ribellato, ha sfidato la diffidenza di chi non conosce grandezza, ha vinto in cinque set (6-2, 6-7, 6-3, 3-6, 6-1) regalandosi l'ultimo come una passeggiata. E quando l'«occhio di falco» ha certificato il punto finale sono state lacrime, appunto, le stesse che bagnarono l'inizio di questo meraviglioso romanzo, ancora incompiuto, 15 anni fa a Wimbledon, quando sembrava impossibile che uno svizzero potesse diventare campione dell'erba più bella del tennis. Ma non era uno svizzero qualunque: era un cittadino del mondo. È il Supereroe di tutti.
Un Supereroe che fa della normalità la sua pozione magica. Capace perfino un paio d'anni fa, di rompersi un menisco mentre faceva il bagnetto ai gemelli. Una moglie, quattro figli in coppia di due, neanche fosse un'equazione perfetta, due genitori che lo seguono in giro per il mondo quando c'è da vincere o anche quando c'è da consolarlo. Nulla è più umano di questo, ed è lo stesso Roger che lo ricorda: «È Mirka, mia moglie, che rende tutto possibile: senza il suo sostegno, avrei smesso già da molti anni. E invece quando le ho chiesto se fosse felice di questa vita, lei mi ha risposto che era mia prima supporter. E che dovevo andare avanti». Anche adesso, a 37 anni e con la pancia non ancora piena di gloria, «anche se io più di due settimane senza i miei figli non so più stare. Ma è mia moglie che si sobbarca un carico di lavoro enorme con i bambini: il suo no avrebbe fermato tutto. A lei e ai miei genitori, che sono così felici di venire ai tornei per vedermi, devo quello che sono».
Roger Federer insomma è l'antitesi di tutto quanto fa spettacolo in questo mondo ormai ridotto ad una chiassosa vetrina: non è un ribelle, non ha tatuaggi, non dice (quasi mai) parolacce. Vive di passione e di talento, vive per lo sport e per la famiglia, facendo un mix di tutte queste cose come fosse una sola. Non è un famoso su un'isola ma un'isola tra i famosi. Roger è insomma un Supereroe che non ha bisogno di un fumetto per esistere: gli basta invece essere semplicemente un uomo.
Qualcuno ha detto: non esiste altro dio del tennis al di fuori di lui. Più semplicemente forse non esiste altro essere umano che abbia trasformato il tennis in un questione così divina. E, probabilmente, non esistiterà mai più.
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