Ferrari made in Torino. Domenicali se ne va e arriva l'"americano"

Pressione di Marchionne, il team principal paga i risultati. Al suo posto Mattiacci, uomo di fiducia di Montezemolo

Ferrari made in Torino. Domenicali se ne va e arriva l'"americano"

E adesso. Solo adesso. Sono veramente guai. Perché la Ferrari resta senza parafulmine, senza veli, senza foglia di fico a celarne le imbarazzanti debolezze. Stefano Domenicali ha fatto un passo indietro, ha dato le dimissioni, ha detto e sottoscritto come è nel suo stile tutta colpa mia «ci sono particolari momenti in cui serve il coraggio di prendere decisioni difficili e molto sofferte e da capo mi assumo la responsabilità per dare una scossa all'ambiente». Poi, con l'eleganza che lo contraddistingue, ha riunito i suoi, spiegato meglio la decisione, molti si sono commossi, quindi ha smontato il parafulmine che aveva piantato in testa da troppi anni, ha riposto tutto nella ventiquattr'ore, salutato e se n'è andato. Ventitré anni dopo essere entrato in Ferrari con la sua laurea in Economia. Al suo posto un'altra laurea in Economia, Marco Mattiacci, 43 anni, presidente e ad di Ferrari Nord America, un curriculum pieno di soddisfazioni manageriali e commerciali, ma senza vera esperienza di corse. «Execution, execution, execution! Estrarre il 120% da ogni membro del team» ha scritto sul suo profilo Linkedin. La nuova avventura è iniziata.

Domenicali paga colpe solo apparentemente tutte sue. Gli imputano gli insuccessi, una squadra allo sbando, di non aver strigliato abbastanza i suoi, eppure quei «suoi», i vari Fry capo telaio, Allison dt, Tombazis progettista, Marmorini motorista erano il meglio dopo Adrian Newey, il mago che magari ora arriverà visto che Mr. Red Bull è sazio e Vettel sempre più futuro ferrarista e Alonso con l'addio di Domenicali ha ancora meno motivi per restare.
Peccato. Domenicali paga qualche errore suo (come quando assecondò Alonso nell'allontanare il dt Aldo Costa ora alla Mercedes) ma soprattutto una squadra e un team in balìa di una F1 oscura ed eterodiretta. Paga la sfiga della strategia di Abu Dhabi 2010 quando il mondiale più difficile da raddrizzare era stato incredibilmente raddrizzato, facendo bene il lavoro suo di agitatore di uomini, ma quel mondiale scappò via all'ultima gara per un errore di un ingegnere al muretto. Errore non suo ma in fondo suo. Di un suo uomo, di un tecnico di macchina che solo tre anni prima aveva portato Raikkonen al titolo, per cui non un pirla.

Peccato. Ora i tifosi saranno contenti. Hanno ottenuto quel che chiedevano a gran voce. Tifosi certamente molto più felici di Montezemolo, attivissimo in questi giorni. Montezemolo che ha sicuramente vissuto questa decisione anche come un fallimento personale, una scommessa persa sul giovane manager cresciuto nel Cavallino che ringrazia per «il grande senso di responsabilità che ha saputo dimostrare, anche oggi, anteponendo l'interesse della Ferrari al proprio». Sconfitta perché la sensazione forte è che dietro queste dimissioni ci sia stata un'accelerazione made in Torino, made in Fiat, made in Marchionne, quasi ci si trovasse di fronte a una Rossa mezza commissariata da Torino. Mezza perché il nuovo team principal è un uomo di fiducia di Montezemolo e non mandato da Marchionne, un uomo che visto il passato tutto commerciale e vista l'età del vertice della Ferrari, potrebbe studiare da futuro ad dell'intero marchio. Si vedrà. Intanto preme risanare la squadra corse, dare quella scossa per cui si è sacrificato Domenicali e non si crucci il presidente: con Stefano non ha fallito. L'uomo era quello giusto. Solo che la F1 aveva deciso che non era più il momento giusto per una Ferrari come l'avevamo vissuta negli ultimi trionfali dieci anni. I cambi regolamentari, il tetto agli investimenti, i test annullati, l'era dei simulatori e delle gallerie del vento su cui gli altri team senza circuito di proprietà avevano investito milioni e sviluppato in anticipo, tutto questo ha annullato gran parte del vantaggio ferrarista. La Rossa che aveva speso prima su Fiorano e poi sul meraviglioso circuito del Mugello si è trovata senza fondamenta, precipitando in un incubo. E dal 2008 il risveglio l'ha dovuto gestire Domenicali: meno soldi, non più i circuiti che correggevano le approssimazioni della galleria del vento mentre i rivali al simulatore non ne sbagliavano una. La verità è che Domenicali si è ritrovato in mano le chiavi di una Ferrari diversa in una F1 - vero Ecclestone? - che aveva bisogno di attrarre nuove cose, nuovi marchi, nuovi sponsor, nuove forze. Da qui l'epopea Red Bull lunga quattro anni e tanti occhi chiusi quando non c'era da vedere certe furberie tecniche; e da qui l'appena iniziata e prossima epopea Mercedes. Squadrone über alles, squadrone che, sì, ha lavorato meglio sulla tecnologia turbo-ibrida rispetto a Maranello. Però non dimentichiamo che nella ricerca sull'ibrido la Casa tedesca era ed è avanti anni luce rispetto alla Fiat azionista di riferimento della Rossa.

Per rendere l'idea, è come se la rivoluzione in F1 anziché l'ibrido e il turbo avesse imposto metano e Gpl.
Con il know how Fiat in materia, contro una Ferrari a metano non ci sarebbe stata storia per nessuno. Ma chissà se avrebbe emozionato i tifosi.

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