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"Kobe, il mio adorabile rompiscatole"

Il brasiliano ex Caserta e Pavia, record mondiale di punti e 5 olimpiadi: "La vittoria più bella? Ho battuto il cancro"

"Kobe, il mio adorabile rompiscatole"

C'era una volta un bambino che si chiamava Kobe Bryant che sognava di diventare Oscar Schmidt. Il piccolo Kobe, che saliva su e giù lo Stivale seguendo il padre Joe, fantasticava su quel brasiliano magro e mezzo calvo che finiva sempre per battere proprio le squadre in cui militava papà Joe. Kobe ne era innamorato, ammaliato, stregato. Cercava di carpire ogni segreto da quel giocatore inarrestabile, uno dei migliori marcatori di tutti i tempi della pallacanestro con quasi 50.000 punti, che ha vestito le maglie di Caserta e Pavia tra il 1982 e il 1993. Ancora prima di diventare la stella dei Los Angeles Lakers e di vincere una statuetta per il miglior cortometraggio, in Italia per lui erano già notti da Oscar. «La notizia della morte di Kobe - rivela Schmidt - è stata dura da digerire, un dolore incredibile. Pensate a una persona che vi piace molto, e questa persona muore. È lo stesso. Sono già passati due mesi da quella immane tragedia, ma lui è come se fosse ancora qui con noi».

Che ricordi ha di lui?

«L'ho conosciuto la prima volta quando era piccolo, aveva solo 6-7 anni e seguiva dalla tribuna le partite di papà. Non stava mai fermo era un piccolo rompiscatole. Entrava in campo prima di una partita, all'intervallo e a fine partita per fare qualche tiro a canestro. Si intravedeva già il suo talento. Dovevano rincorrerlo per tutto il campo per dirgli di smettere perché dovevano chiudere le luci. Sono sicuro che sarebbe rimasto lì tutto il tempo».

Lei era l'idolo di Kobe.

«Una volta ho sentito i compagni di squadra di Joe dire che suo papà avrebbe presto parlato al piccolo Kobe di Magic Johnson e Michael Jordan. Kobe gli ha risposto: Il migliore di tutti è Oscar. Papà, tu perdi sempre con Oscar e allora io tifo per lui! (risata) Quando ci incontrammo per la prima volta ai Giochi 2008, era ormai un adulto. Piansi quando scoprii che in un documentario mi aveva soprannominato la Bomba, per via dei miei tiri da lontano».

La Bomba però non giocò in Nba. Dispiaciuto?

«Avevo 26 anni e nel 1984 fui scelto al draft dai New Jersey Nets al 6° giro. Un insulto! Kobe era d'accordo con me, perché il campionato italiano era uno dei migliori d'Europa. La scelta n°1, Jeff Turner, neanche si presentò: volevo sfidarlo, per confrontarmi, per dimostrare il mio valore. A quel raduno c'erano giocatori che pregavano per un posto in squadra. Quando segnai 25 punti in 25 minuti impazzirono. A quel tempo i giocatori stranieri dovevano scegliere: l'Nba o la Nazionale. Scelsi la seconda. Sono stato uno dei primi a dire no all'Nba. Ancora più orgoglioso aver vinto con il Brasile l'oro ai Giochi Panamericani. Segnai 46 punti e vincemmo 120-115. A casa loro».

Con i verdeoro lei partecipò a cinque Olimpiadi. Uno dei tanti record.

«In Brasile mi chiamano Mano Santa, perché c'era il messicano Guerrero chiamato così in patria, ma non c'era niente di santo in quello che facevo. Era tutto merito dell'allenamento. A Caserta, invece, mi chiamavano O'Rei: certo, c'era già la reggia (risata)».

Anche Schmidt aveva la sua Mamba Mentality?

«Ripeto spesso che l'allenamento conta più del talento. E io mi allenavo come un mulo. Forse per questo piacevo a Kobe. Facevo almeno 500 tiri da tre dopo ogni allenamento. Più di 1.000 se gli allenamenti erano due. Cercavo sempre nuove sfide, nuovi tiri. E se sbagliavo al 19° tiro quando ne mancava uno per arrivare a 20, ripetevo daccapo: uno, due, tre, ecc una volta ci ho messo quasi due ore per arrivare a 20! Lo facevo sempre, anche al Flamengo, a 44 anni. Questo è il segreto del mio record di punti (49.737)».

Siamo in pieno Covid-19, ma per Bolsonaro c'è un'isteria da virus.

«Io a 62 anni sono un soggetto a rischio, per questo qui a San Paolo esco solo se necessario. Bolsonaro? Si parla troppo di quello che dice, dovrebbero lasciarlo in pace. È il nostro Presidente. Non è un ignorante».

Le Olimpiadi rinviate al 2021?

«Giusto così. Non avrebbe avuto senso disputare un'Olimpiade se ora nessuno si sta allenando. Mio nipote Bruno Oscar (oro a Rio 2016 nel beach volley contro gli azzurri Nicolai-Lupo, ndr) mi ha detto: non importa, vincerò l'anno prossimo!».

Il campionato italiano?

«Ci sono squadre con troppi americani e gli italiani non giocano. Per il resto, vengo volentieri in Italia: sono stato a Caserta a fine anno».

Lei ha sconfitto un tumore al cervello. Adesso come sta?

«Sto bene. L'altro giorno mi chiama il medico e pensavo tra me: vedrai che c'è un altro problema. Mi ha detto: Oscar, i miei complimenti, la tua risonanza è buonissima.

Che felicità».

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