Italians do it better. Gli italiani lo fanno meglio: il ciclismo. Lo praticano e lo pensano meglio, ma lo sanno anche allenare, curare e programmare come nessuno. Se da una parte c'è poco da stare allegri perché del nostro Paese nel mondo non è rimasto un solo team di alto livello, dobbiamo anche cercare di guardare il bicchiere mezzo pieno che è peraltro pienissimo di italiani che sono andati a valorizzare i maggiori club del pianeta. Insomma, il mondo del ciclismo vuole gli italiani. Siamo i più graditi, in tutti i sensi: dai corridori, agli allenatori, passando per tecnici e dottori. Non c'è team che non voglia un nostro connazionale.
Ben 60 sono i corridori e 23 i tecnici che figurano quest'anno nei team di World Tour, la Champions League del ciclismo. Tra gli atleti nessuno è come noi: guidiamo questa speciale classifica con 9 lunghezze sul Belgio e 15 sulla Francia. In ammiraglia abbiamo un uomo in più dell'Olanda e due della Francia e dominiamo la scena nell'Europa storica, vale a dire che i nostri uomini trovano spazio nelle formazioni storiche e di maggior peso, dove per esempio la Colombia non ha nemmeno un tecnico. Australiani e britannici sono ancora lontani nei numeri, più o meno staccate sono tutte le altre nazioni.
«La scuola italiana non ha più una squadra di riferimento in Italia per colpa della crisi economica che investe il nostro Paese in generale, ma nonostante tutto mantiene alto il proprio nome e livello di professionalità distribuendo corridori e personale in ogni dove spiega Luca Guercilena, team manager della statunitense Trek Segafredo, la formazione di Alberto Contador -. È innegabile che abbiamo tecnici validi, capacità organizzative e strategiche riconosciute, grazie ai percorsi formativi previsti dalla nostra Federazione, che ovviamente sono migliorabili ma sono un vanto a livello mondiale. A questo va aggiunto che i nostri meccanici, massaggiatori e addetti alla comunicazione sono cresciuti in un Paese dalla profonda cultura ciclistica e perciò hanno una professionalità e un'esperienza che il mondo ci invidia e riconosce. Per questo non esita a bussare alla nostra porta».
Il mondo parla inglese, ma vuole gli italiani. Siamo i pedali in fuga, la nazione di riferimento per qualsiasi squadra. I kazaki dell'Astana sono pieni zeppi di nostri connazionali, da Aru a Beppe Martinelli: una vera e propria enclave italiana che costituisce il 50 per cento del team. E lo stesso vale per la nuova squadra di Vincenzo Nibali, il Team Bahrain, che non solo poggia sulle spalle del campione siciliano, ma è diretto e preparato da Paolo Slongo e da un folto nucleo italico. Così come la Lampre di Beppe Saronni, che da quest'anno è sponsorizzata dagli Emirati Arabi. «Volevano entrare nel mondo del ciclismo con un loro Team (si chiama UAE Abu Dhabi, ndr) e hanno scelto noi, la nostra struttura, il nostro modo di fare ciclismo: di questo dobbiamo esserne orgogliosi, difatti lo siamo», dice il campione del mondo di Goodwood '82.
«Siamo rimasti indietro mentre il mondo cambiava dice Davide Bramati, tecnico della belga Quick Step, la formazione di Tom Boonen -, ma abbiamo avuto il merito di capirlo e metterci in gioco. Noi tecnici siamo andati a scuola, dalla lingua francese siamo passati all'inglese. Oggi siamo certamente al centro del progetto del ciclismo mondiale. È vero, non abbiamo più squadre italiane, ma di italiani dei team più forti del mondo ce ne sono tantissimi, e anche questo è un punto a nostro favore».
Una volta il ciclismo aveva il proprio epicentro in Italia, Francia, Olanda e Belgio, mentre negli ultimi anni l'asse si è spostato sensibilmente, globalizzandosi e crescendo in maniera esponenziale finendo per esplodere in Paesi come l'Inghilterra e l'Australia, ma anche in Cina e nei Paesi arabi. Si corre in tutto il mondo e per tutto l'anno.
«Ma una cosa resta: noi italiani facciamo chiaramente e fortissimamente parte del progetto», dice con orgoglio Davide Cassani, ct e coordinatore di tutte le squadre azzurre. E possiamo dirlo con una punta di civetteria: il mondo ci guarda.
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