Prima della caduta del Muro di Berlino la storia di Yura Movsisyan sarebbe apparsa così surreale da scoraggiare persino la mente fervida e complottistica di un romanziere come Le Carré. Eppure il 25enne centrocampista della nazionale armena che venerdì affronterà gli azzurri, è la perfetta visione agli antipodi della guerra fredda, o di quello che ancora ne rimane. Russo di padre, americano di madre, armeno da parte dei nonni paterni, è nato a Baku, in Azerbaigian, quando ancora faceva parte del vetusto orso sovietico. Nel suo dna c'è davvero una mescolanza di razze che appena un quarto di secolo fa l'avrebbe portato a una condizione di vita tra coloro che son sospesi. E invece Movsisyan ha dribblato, come fa con la palla al piede, luoghi comuni e aggirato cortine di ferro. «Quello che è accaduto fa parte della storia - racconta - vicende che riguardano un passato in cui forse non ci vogliamo più riconoscere. L'essere stato un po' russo e un po' americano mi ha permesso di cogliere il meglio da entrambe le etnie». Retaggio di un'infanzia trascorsa a Baku e un'adolescenza al caldo californiano di Pasadena.
Nel mezzo c'è l'Armenia, la patria degli avi. «Avevo i documenti a posto per giocare con Russia, Bielorussia e Stati Uniti - spiega - ma nessuno ha bussato alla mia porta. Lo ha fatto l'Armenia, ma vi prego, non affibbiatemi l'etichetta dell'opportunista. Difendo questa maglia con entusiasmo e alle note dell'inno nazionale mi commuovo». In realtà non conosce una sola parola de' «La nostra Patria»
Con le sue 17 presenze è uno dei giocatori di riferimento della selezione allenata da Vardan Minasyan. Una squadra che non è certo attrezzata per staccare un biglietto per Rio de Janeiro, ma che si diverte a vestire i panni di guastafeste. «Con l'Italia non sarà una passeggiata di salute. Ma credetemi, non lo sarà neppure per loro. Minasyan è un grande motivatore, sa sempre come ottenere il meglio dai suoi atleti».
Movsisyan, più forte della cortina di ferro
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