Quegli atleti felici anche senza una patria

Dalle Antille al Sud Sudan: in quattro hanno sfilato sotto la bandiera olimpica

L’identità non ha bisogno di una bandiera. Sono in quattro sot­to i cerchi olimpici. Ballano, can­tano, fotografano. Parlano senza parlare: «Ci siamo anche noi».Qui non han­no un paese, ma hanno una storia. Quattro atle­ti senza patria. Figli del­lo sport, ma non della po­litica sportiva. Non più o non ancora: Antille Olandesi e Sud Sudan. Uno stato scompar­so e un altro nato da troppo poco. L’Olimpiade li accoglie: venite, c’è posto anche per voi.Sono sim­boli, come le atlete donne dei pae­si che fino a quattro anni fa non ne avevano neanche una. Forse più di quelle donne, però. Perché die­tro non c’è né una trattativa, né una trovata di marketing diploma­tico: c’è la voglia di essere qui. Ci sono i Giochi olimpici? Noi ci sare­mo. Ovunque, comunque. Ecco perché ballano. Dai, ragazzi. Sco­nosciuti e perdenti certi. Sono gli unici per cui valga la pena davve­ro dire: l’importante è stare qui, con il mondo. In mezzo a chi un Pa­ese ce l’ha, anche soltanto per ma­ledirlo. Gli atleti senza patria han­no solo se stessi: le gambe, la for­za, la testa. Hanno la faccia di Phili­pine van Aanholt, la velista bian­ca, nata in Olanda, diventata citta­dina delle Antille Olandesi. Vive a Curaçao, uno degli isolotti che fa­ceva parte dell’arcipelago caraibi­co: quando l’amministrazione delle Antille ha deciso di disgre­garsi, Curaçao ha ottenuto l’indi­pendenza dai Paesi Bassi. È uscito da una porta e ha trovato il vuoto: uno di quei casi in cui una nazione esiste nei fatti, ma non sulla carta. Non la riconosce l’Onu, non la ri­conosce nessuno. Il Comitato olimpico delle ex Antille ha conti­nuato a lavorare fino all’anno scor­so, poi il Cio l’ha cancellato. Ciao, ragazzi, arrangiatevi. La Van Aanholt ha continuato a gareggia­re. Come lei il judoka Reginald de Windt e il velocista Liemarvin Bo­nevacia. Sconfitti dalla burocra­zia diplomatica e dalle convenzio­ni di circostanza. Hanno chiama­to il Cio, hanno protestato, hanno portato il precedente: nel 1992, a Barcellona, il Comitato olimpico internazionale fece gareggiare gli atleti della ex Jugoslavia sotto la bandiera olimpica. Vent’anni fa, i figli dei Balcani erano 58: 39 uomi­ni e 19 donne. Arrivarono a meda­glia: un argento e due bronzi. Tutti nei tiri, una pistola e due carabi­ne, una strana e macabra coinci­denza per una regione in guerra ci­vile, con i cecchini sui tetti delle cit­tà distrutte, con i morti nelle fosse comuni.È Guon Marial che s’avvi­cina a loro. È il quarto dei senza bandiera. Non c’era alla cerimo­nia inaugurale. Ci sarà: viene da­gli Stati Uniti, via Sud Sudan. Par­te dall’America perché è lì che s’è preparato per Londra. Da rifugia­to politico. Concord, New Hamp­shire. Coincidenze pure queste: è lo stato americano che ha come motto Live free or die, vivi libero o muori. Marial ha cercato vita. Ne­gli Usa ha visto il risultato del refe­rendum del 2011: Sud Sudan indi­pendente. Ha pensato di avere un Paese. Non c’è ancora, invece. Non nello sport: per le regole del Cio uno stato senza strutture olim­piche non può mandare atleti ai Giochi. A Londra, Marial avrebbe potuto arrivare sotto la bandiera del suo vecchio paese, il Sudan. Quello da cui era scappato. Anche lui ha chiesto lo status di indipen­dente: il Cio ci ha messo nove me­si per dargli una risposta. Ok, vie­ni. Sotto la bandiera olimpica: te­lo bianco con i cinque cerchi. Inde­pendent Olympic athletes, li chia­mano.

Sulla pista dello stadio di Londra erano stretti tra l’Islanda e l’India.Pochi,invisibili nonostan­te i balli, nonostante la gioia, nono­stante l’orgoglio. Apolidi, cittadi­ni senza cittadinanza. Figli dello sport. Punto.

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