di Tony Damascelli
S ul dribbling ci siamo. Sulla velocità anche. Sulla fama internazionale pure. Sulla capigliatura improbabile e le movenze da ballerino, siamo d'accordo. Ma tra i due non c'è soltanto una consonante di differenza. Dico di O Rei che era e resta e resterà unico in eterno e questo contemporaneo O Ney che fa notizia per i dati segnaletici di cui sopra, oltre al salario di ottantuno milioni e mezzo che i signori del Qatar gli garantiscono a Parigi. Ma nessun paragone, per favore, tra Pelé e Neymar jr che è junior nonostante i ventisei anni. A quell'età Pelé aveva già vinto due titoli mondiali, in attesa del terzo, il suo nome di quattro lettere aveva fatto il giro dell'universo, Pelé era il football, non era soltanto il Brazil con la sua torcida e il carnevale e il pan de azucar.
Neymar è il prodotto di un sistema che abbisogna di costruire l'idolo. Nessun dubbio sul talento, sul potenziale, sulle doti tecniche ma il ballerino dovrebbe chiedere al grandissimo compatriota che cosa significhi davvero un football violento, come accadde nel mondiale inglese del '66 quando il gentiluomo bulgaro Zechev fece opera di aggressione definitiva sul genio brasiliano togliendolo dal torneo e privando la regina di un altro gioiello per la corona. Neymar spesso giace sui prati verdi, al primo contatto si avvita, pirla come una trottola, slitta e chiede il castigo dell'avversario chiamato al lavoro sporco. Behrami, un albanese naturalizzato svizzero, gli ha conteso il look del miglior taglio da coiffeur ma gli ha fatto sentire le scintille dei tacchetti e il peso della marcatura puntuale, prima di arrendersi.
Verranno partite migliori, verrà il tempo, per lui, di dimostrare di essere l'erede del Dio del fucibol, nulla avendo a che fare con Pelé se non la nazionalità e la fama per lui precoce e gonfiata, come la zazzera sulla sua testa.
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