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"Trionfi, lacrime, campioni e quella gaffe con Messi..."

L'ex centrocampista apre lo scrigno dei ricordi in un libro: "Ho sfogliato la mia carriera per celebrare gli altri, non me"

"Trionfi, lacrime, campioni e quella gaffe con Messi..."

Demetrio Albertini non è il tipo da aprire i cassetti della sua vita e raccontare storie e aneddoti che farebbero la felicità dei bambini sognatori e degli stagionati amanti del pallone. Dieci, cento, mille volte gli hanno chiesto di squadernare il suo voluminoso album di fotografie e si è sempre ritratto opponendo quel sorriso impacciato di chi si sentirebbe improvvisamente nudo davanti al pubblico anonimo. Questa volta, come succede a ciascuno di noi nella vita, per la prima volta, Demetrio Albertini ha ceduto alla tentazione e riaperto quei cassetti della memoria per tirar fuori una rassegna eccitante intitolata «Ti racconto i campioni del Milan», splendida cavalcata tra trionfi e sconfitte dolorose, delusioni e lacrime spese, ma anche insegnamenti. Che è poi il fine ultimo di questa narrazione. «L'ho fatto non per celebrare la mia carriera ma per valorizzare il contributo degli altri» la spiegazione che ha quasi il sapore di una giustificazione, è come se volesse chiedere scusa per aver calpestato un terreno che non gli è congeniale. «Il mio intento figurato è il seguente: è come se avessi preso un album, sedendomi sul divano, con i miei figli, per sfogliarlo insieme a loro e raccontare le emozioni vissute. Oggi ci sono video, testimonianze digitali, ai miei tempi non ancora e ho voluto rimediare, colmare questa lacuna» la spinta esistenziale.

Caro Demetrio, cominciamo da uno degli episodi più curiosi. Così per rompere il ghiaccio...

«Devo rimettere indietro le lancette dell'orologio e portarvi al maggio del '94, vigilia della finale di Atene con il Barcellona, poi vinta 4 a 0. Io e Maldini facciamo una promessa solenne alla vigilia: se vinciamo ci facciamo i buchi all'orecchio e mettiamo gli orecchini, era la moda di quella stagione. Bene: succede. Vinciamo e le scommesse vanno onorate. Dopo qualche giorno però dobbiamo raggiungere Milanello dove ci aspetta la Nazionale per preparare il Mondiale. Allora chiamo Paolo e gli dico: scusa ma mica ci presentiamo da Sacchi con l'orecchino, sai dove ci manda... E l'orecchino finì nell'astuccio».

Ne serve subito un altro, coraggio Demetrio...

«Io a 18 anni, alle prime da titolare nel Milan. C'è il Presidente col quale faccio la passeggiata che va dallo spogliatoio alla club house, è una giornata molto afosa. Lui mi guarda, mi ispeziona e mi fa: Ma sei senza calze? Quelli sono i ferri del tuo mestiere, devi proteggerli. Io abbozzo un sorriso impacciato, annuisco, senza riuscire a dire una parola. E allora lui capisce al volo e mi scongela così: Vedi che bello avere un Presidente rompi.... Con una battuta mi aveva rimesso a mio agio».

Passiamo agli insegnamenti del calcio: al primo posto come metterebbe Albertini?

«Una grande lezione: il giorno prima non conta più, preparati al giorno dopo, vai avanti senza guardarti mai indietro, nel bene nel male. Così ho fatto sia nelle vittorie che nelle sconfitte. Che sono state tante: Mondiale, europee, scudetti, Champions, coppa Italia».

Scelga le più dolorose.

«Due su tutte. Marsiglia, finale di Champions a Monaco di Baviera. Avevo partecipato da uditore a quelle con Sacchi, '89 e '90, senza godermele. Quando andavo a Castellanza, a casa di Carlo Ancelotti, e vedevo la foto gigantesca di lui con la coppa tra le mani, pensavo: chissà se potrò farmela io un giorno questa foto. Mi capita la finale e la perdiamo. Negli spogliatoi piango come un vitello. Mi viene vicino Franco Baresi e mi fa: sei giovane, sai quante volte ti ricapiterà di vincerla».

L'altra?

«L'europeo 2000 a Rotterdam con la Francia. Stavo per concludere la mia carriera in azzurro, era la mia ultima chance».

Passiamo ai fuoriclasse incrociati a Milanello: formazione ideale...

«So che lascerò qualcuno da parte e che riceverò qualche insulto ma per il Giornale faccio l'eccezione. Allora eccola: in porta Seba Rossi, altrimenti mi viene a prendere per il collo, poi difesa con Tassotti, Franco (Baresi, ndr), Billy (Costacurta, ndr) e Paolo (Maldini, ndr); Rijakaard e Pirlo a centrocampo con Donadoni e Savicevic ai lati, davanti Van Basten e Sheva».

Veniamo agli allenatori.

«L'elenco sarebbe lunghissimo perché non ho mai dimenticato il contributo di Zaccheroni, Cesare Maldini, ad esempio. Due in particolare han segnato la mia carriera. Arrigo Sacchi mi ha trasformato da calciatore in giocatore di calcio, cioè capace di giocare con e per la squadra, Fabio Capello, splendido gestore, ha avuto intuito e coraggio nel prendermi ragazzino e schierarmi al fianco dei campionissimi».

Poi c'è stata la preziosa esperienza all'estero.

«Che mi ha arricchito perché ho conosciuto un'altra lingua, un'altra cultura, un'altra storia. A Madrid, con l'Atletico, io uscivo dall'allenamento e trovavo i tifosi con le famiglie che mi aspettavano, mi parlavano coltivando così il senso di appartenenza. Da noi, oggi, è tutto cambiato. A Barcellona ho addirittura scoperto una nazione, la Catalogna, in una nazione. E ho vissuto l'esperienza delle elezioni presidenziali del Barça».

Dove ha conosciuto Leo Messi.

«Debuttando con una gaffe mondiale».

In che senso?

«Arrivo a Barcellona, mi presentano, vado allo stadio e il presidente mi viene a salutare. Incrociamo un ragazzino, Leo appunto, reduce dal Mondiale under 19 mi pare. Il presidente gli fa: Leo conosci questo nuovo calciatore? Lui risponde: sì. Poi rivolge a me la stessa domanda: conosci questo ragazzo della cantera? E io rispondo: no. Il giorno dopo però, al primo allenamento, vedo questo ragazzo che partecipa al torello iniziale non nel gruppo degli scarsi, dove c'ero io, con Xavi, Iniesta, Puyol, ma in quello dei fenomeni, con Ronaldinho, Eto'o, Deco. Lo vedo palleggiare e gli dico: stai là che è meglio...».

Caro Demetrio, arriviamo alla morale di questo libro, dedicato a suo papà.

«La dedica è a un papà che non mi ha mai creato illusioni. La morale è una sola: riguarda il primo comandamento di chi pratica sport di squadra. Rispetto dei propri compagni.

Poi viene quello per gli avversari».

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