Zaza, l’italiano senza paura che insegue la leggenda del "Pichichi"

Stretto nella morsa di Messi e Suarez l’attaccante di Policoro si batte per conquistare il titolo di capocannoniere, cosa che da vent’anni non premia un italiano. Ma «Pichichi» è anche il nome di una leggenda di Spagna, a cui il destino ha regalato un finale tragico

Simone Zaza con Daniele De Rossi in Nazionale
Simone Zaza con Daniele De Rossi in Nazionale

Non ha una posizione comoda. Simone Zaza è tra l’incudine e il martello: cinque gol sopra ha sua Maestà Leo Messi, fianco a fianco ha il compagno di banco della Pulce Luis Suarez, dieci gol l’uno, dieci gol l’altro. Che poi gli scomodi compagni sono gli ultimi due capocannonieri della Liga spagnola. Nel campionato dei campioni Simone Zaza, «l’ignorante del gol”» come si erano ribattezzati lui e Immobile quando giocavano insieme in Nazionale, sembra un vaso di cristallo tra due vasi di ferro. Mette paura agli avversari ma anche ai compagni di squadra visto che piglia cartellini gialli alla stessa velocità con cui fa gol: sette finora, gli ultimi due presi in due minuti contro il Villareal gli sono costati espulsione e fermo in campionato. Eppure il cannoniere di Policoro può riuscire dove solo un italiano è riuscito, Christian Vieri, vent’anni fa giusti, con la maglia dell’Atletico Madrid: vincere il Trofeo Pichichi, il trono dei bomber di Spagna. E vincerlo non è soltanto fare più gol di tutti, ma entrare nel mausoleo dei «Pichichi», una classifica del gol che prende il nome, anzi il soprannome, di un mito basco come Rafael Moreno Aranzadi, detto appunto «Pichichi», un mito che resiste, e resisterà sempre, a 95 anni dalla sua tragica scomparsa. Rafael era nato nel 1892 e nessuno scommetteva una peseta su di lui nemmeno nel calcio dei pionieri. Era piccolo, magrolino, quasi insignificante. Ma prenderlo sottogamba poteva costare caro perché nel dribbling e nel guizzo ti lasciava sul posto. Ha 19 anni quando debutta nell’Atletico Bilbao, gioca mezzala, presto si accorgono tutti che è invece là davanti che fa disastri nelle difese altrui. É mingherlino ma ha un tiro che fulmina. Con lui i baschi diventano una macchina da guerra: vince quattro coppe di Spagna e tre campionati del Nord, quando le Furie Rosse, alle Olimpiadi di Anversa del 1920, portano a casa l’argento è a lui che devono dire grazie. Gioca quasi fino a trent’anni, e allora, agli inizi degli anni Venti, era un’età da matusalemme, poi lascia senza immaginare la tragica sorte che lo attende. Il primo marzo del 1922 è un attacco di tifo a stroncarlo, ironia del destino è 0che ad ucciderlo sia una malattia infettiva con un nome così.

Di Rafael resta poco o niente: un quadro per esempio del grande pittore basco Aurelio Arteta che lo ritrae con quella che sarebbe diventata sua moglie. E l’onore di un nome che tutti vogliono diventare. Compreso un italiano di Policoro

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