Cultura e Spettacoli

«Sta a sinistra il vero tappo generazionale»

«E pensare che oggi tanti di loro votano a sinistra...». L’esclamazione Roberto Cotroneo la rivolge a chi esce col Suv dai cancelletti liberty di piazza Caprera, bomboniera del quartiere Trieste dove ritrovi le ibridazioni della Roma di oggi, le celtiche sui muri e la neoborghesia politicamente corretta. Esperimento all’edicola: ogni dieci quotidiani acquistati, liberal battono conservatori sei a quattro. Forse ha ragione Cotroneo. Pillole di biografia per i disattenti: sedici anni all’Espresso, romanziere fresco di nuova uscita mondadoriana con Questo amore e, per entrare in tema, critico culturale e del costume, autore di analisi che graffiano con l’impertinenza di un gessetto spremuto sulla lavagna, per esempio quando c’è da spiegare ai papà sessantottini - pensa che male, sull’Unità - perché si ritrovano i figli pop-fascisti. Ne parliamo seduti a un baretto dove, seppure per pochi minuti, le due generazioni siglano armistizi al cappuccino. Cotroneo esordisce così: «Ho la sensazione che l’Italia sia un Paese senza scampo. Irrimediabilmente».
Pessimismo cosmico. Nemmeno con l’Unione al governo? Dovevamo essere liberati dal totalitarismo mediatico, la felicità al potere...
«Sì, qualcuno ha dipinto il conflitto con Berlusconi con toni da Argentina dei desaparecidos. Finita la Guerra Totale è subito sparito l’entusiasmo. Prima si demonizzava Berlusconi, oggi già si comincia a sputare veleno contro la sinistra che non sa governare. Due forme infantili di esasperazione che alla sinistra fanno malissimo».
Di chi è la colpa? Dei politici? Degli intellettuali?
«Un po’ di tutti. Come si diceva un tempo, il problema è a monte. In Italia i grandi partiti di massa, socialisti e comunisti e democristiani, hanno sempre coltivato un senso di estraneità rispetto allo stato liberale. Così, anche nel dopoguerra, abbiamo vissuto nell’assenza di rispetto per le istituzioni statali, sostituite e surrogate dai partiti-stato, che costruivano al proprio interno un pluralismo contraddittorio: la Democrazia cristiana teneva dentro cattocomunisti e reazionari, nel Pci potevano convivere l’estremismo di Secchia e Giorgio Amendola, che oggi - mi si passi l’azzardo - potrebbe stare nel centrodestra. Questa frammentazione e questa confusione l’abbiamo trasportata nel bipolarismo. Il problema degli ultimi venti anni non è Berlusconi, è l’assenza di regole condivise. Certo, se Berlusconi avesse fatto la legge sul conflitto di interessi sarebbe diventato un grande statista. Ma è un’altra questione. L’urgenza è fare i conti con una realtà amara, dove la politica non è la dimensione peggiore, l’inadeguatezza della classe dirigente italiana, l’incapacità di indicare i percorsi di modernizzazione del Paese...».
... aggiungiamo l’impermeabilità al ricambio generazionale.
«Anche. La generazione dei quarantenni è già stata schiacciata, e chi ha venti o trent’anni non ha spazi per emergere. Nella creazione di questo tappo, certamente, la sinistra ha più colpe perché è più strutturata, ha un establishment ormai immutabile. Da troppi anni. Prendi la sinistra “formato Capalbio”, una noia...».
Per questo, ha notato una volta, i figli degli adulti di sinistra scelgono di stare a destra?
«I più giovani, semplicemente, percepiscono che in campo culturale c’è un’egemonia costruita sui miti e le parole d’ordine dei genitori, che il pensiero dominante è di sinistra. E vanno all’opposizione, prima in casa propria che fuori. È un atto di ribellione generazionale».
Arriviamo all’eterno problema dell’egemonia culturale della sinistra.
«L’egemonia c’è stata, come frutto della spartizione di ruoli tra democristiani e comunisti nel dopoguerra: a me il potere politico e a te il potere culturale. Continua a resistere e penso lo farà in futuro, anche se in forme diverse legate alla crisi della cultura di sinistra».
Crisi che, come ha scritto, rende l’Italia «un Paese sconosciutissimo a intellettuali, registi, scrittori, attori» che «scambiano sempre di più il loro piccolo mondo con il centro dell’universo»?
«Sì, questo è uno degli effetti della crisi. L’altro è un prodotto dell’incontro della cultura di sinistra con il liberismo degli anni Ottanta, a suo modo una lettura culturale del mondo fondata sul primato del business: prima i registi facevano i film infischiandosene del successo di pubblico, oggi devi fare incassi. Prima un Giulio Einaudi nemmeno comunicava ai suoi autori il numero di copie vendute, oggi sono le previsioni di vendita che fanno i libri. Il che ovviamente a sinistra ha prodotto un cortocircuito: pur di mantenere in piedi la costruzione egemonica, e a forza della retorica del “no, il dibattito no”, la neosinistra è passata da Claudio Lolli a Ligabue, dai piani sequenza di Theodoros Angelopoulos a Matrix, dai Quaderni piacentini e dalla mannaia togliattiana del “non l’ho letto e non mi piace” a una sorta di assoluzione totale ed ecumenica di tutto ciò che è popular culture. La sinistra dello show-biz».
Un simbolo?
«Alessandro Baricco, anche se mi è simpatico. In generale, la cultura contemporanea di sinistra è immersa nella logica del reality: si deve parlare di ciò di cui tutti parlano. Così restiamo tutti schiavi della passione per i retroscena e i gossip, e non c’è un direttore di giornale che abbia il coraggio di non mettere in prima pagina i prodotti televisivi del giorno prima. E, lo dico dispiaciuto ancora di più per chi rivendica primati culturali, la sinistra intellettuale ha fatto pochino per impedire tutto questo».
Nemmeno chi organizza una Festa del cinema a Roma dove, citiamo Repubblica, la «ggente» impazzisce per Nicole Kidman mentre «monumenti dell’arte europea» come Michel Piccoli «passeggiano inosservati tra il popolo dei cinefili»?
«Veltroni ha appreso dal Pci, e prima ancora dal fascismo, che il cinema può essere uno straordinario strumento di produzione di immaginario. In più, ha vinto una delle sfide della sinistra culturale show-biz: dimostrare che la cultura non è un investimento economico a perdere. Certo, a voler essere maligni, c’è un po’ di populismo nel passeggiare con la Kidman o Martin Scorsese, o portare Leonardo Di Caprio a Tor Bella Monaca, ma la modernità della sua azione culturale e amministrativa è indiscutibile».
Visto che siamo in tema di pop, parliamo di icone intoccabili. Lei è l’autore di una delle critiche più radicali del Sessantotto.
«E ne sono fiero. Il Sessantotto, accanto a fenomeni positivi come l’emancipazione femminile, ha prodotto in Italia un mare di guai. Anzitutto, l’idea che la meritocrazia non valga nulla. In secondo luogo l’idea, un misto di speranza e incoscienza, che vi fosse una classe borghese di nuova generazione pronta a prendere il potere e a ottenerlo, diciamo, “a costo zero”, con il tragico esito di una neoborghesia che ha fatto carriera e dei figli dei poveri che sono finiti nella spirale della violenza e del terrorismo. In terzo luogo, a differenza di ciò che è accaduto altrove, il Sessantotto italiano è stato schiacciato dall’ideologizzazione e dal rifiuto della storia italiana. In America si voleva un’università migliore, in Italia si lottava per rovesciare lo Stato. Dei propositi rivoluzionari restano solo le corsie preferenziali di carriera per qualche centinaio di fortunati e l’infantilismo politico. Ad esempio, se il populismo è un virus che colpisce soprattutto a destra, la sinistra soffre ancora di leaderismo, della ricerca del “grande timoniere” che produca immaginario politico: si aspira a trovare un nuovo Che in versione italiana, poi ti ritrovi Rutelli e - lo dicevo all’inizio - ti deprimi. O, a seconda dei casi, ti indigni».
Si sente odor di girotondi.
«Un tentativo velleitario di sostituirsi alla classe politica. Ma, quando vivi di massimalismi, ne resti schiavo».
È normale un «popolo di sinistra» che elegge Beppe Grillo a suo portavoce?
«No. Grillo, però, appartiene a un’altra categoria: i girotondi sono inside, sono “dentro” al sistema, Grillo è un qualunquista che sta fuori dal sistema e dai codici del potere, che denuncia e ogni tanto ci azzecca. Perlomeno, non lo vedremo mai ministro».


(3. Continua)

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