Ci toccherà di rimpiangere, mentre l’estate avanza e la fiducia dei cittadini indietreggia, i governi balneari della prima Repubblica? Ci toccherà di pensare con nostalgia a personaggi che avevamo collocato tra le figure minori o minime d’una datata e archiviata stagione politica? Proprio questo, suppongo, è il pensiero di molti italiani che assistono all’annaspare frenetico e disperato di Romano Prodi nelle agitate acque romane.
Forse siamo stati ingiusti o affrettati, nel nostro giudizio severamente negativo sull’era democristiana. Forse nel torpore indolente della balena bianca c’era un fondo di saggezza - se preferite di cinismo attendista - reso più evidente dallo smaniare convulso del naufrago di Palazzo Chigi (con eufemismo sublime Eugenio Scalfari ha definito «in affanno» il suo governo).
Sì, abbiamo sparato a zero contro un regime che aveva dato al Paese 56 governi in cinquant’anni, che aveva realizzato il miracolo d’una immobilità travestita da movimentismo, che cambiava esecutivo ogni pochi mesi ma facendo sempre ruotare le stesse facce, il presidente del Consiglio di oggi era il ministro degli Esteri di domani, e viceversa. Giulio Andreotti ne sa qualcosa. I nomi che si avvicendavano al vertice delle istituzioni non hanno lasciato una traccia memorabile nelle istituzioni stesse, possiamo avere fondati dubbi sui talenti d’un Arnaldo Forlani o d’un Flaminio Piccoli, ma quando ascoltiamo il ministro Pecoraro Scanio siamo tentati d’iscrivere Forlani e Piccoli tra i maggiori statisti di casa nostra nel dopoguerra.
Fu, quella democristiana, un’egemonia sommessa. L’egemonia dei calzini corti e dell’ostentata morigeratezza. I costumi da bagno di notabili democristiani come Aldo Moro - e delle loro signore - ricordavano frammenti cinematografici delle Keystone Pictures. Erano molto di là da venire i tempi del Billionaire e di Fabrizio Corona, e il massimo del vizio gaudente veniva sintetizzato dal modico e quasi pudico spogliarello di Aichè Nanà ne La dolce vita. Ciò che l’Italia aveva di più somigliante alla figura e al temperamento di Charles de Gaulle era Amintore Fanfani, ma la diversità di statura risultava evidente al primo colpo d’occhio. Dc e Pci polemizzavano aspramente. Tuttavia la Nomenklatura togliattiana, scaricate le mogli ideologicamente irreprensibili ma esteticamente discutibili delle lotte antifasciste, ripiegava su compagne formose. Le macerazioni gramsciane o dossettiane lasciavano posto alla letteratura d’ombrellone, insomma il balneare avanzava, anche politicamente.
Accadde così che i Dc avessero una delle loro straordinarie intuizioni immobilistiche. Quella dei governi formati perché, anziché governare, facessero semplicemente passare i mesi necessari a dipanare i garbugli di partiti e di correnti. Anziché fingere un attivismo inesistente e impossibile - la tecnica prodiana - quei governi ostentavano il loro dolce far niente. Tanto il Paese cresceva per conto suo, all’insaputa di chi teoricamente lo guidava, e anche malgrado chi teoricamente lo guidava. Il manovratore non c’era, un motivo di più per non disturbarlo.
Erano necessari, per un compito così impegnativo, degli specialisti del surplace. La Dc ne aveva una riserva ottima e abbondante. Il più noto fu Giovanni Leone - poi al Quirinale - che portava nel fancazzismo scientifico la sua bonomia napoletana. Un altro fu Mariano Rumor, cui toccò di traversare anche momenti terribili della storia italiana (era presidente del Consiglio quando avvenne la strage di piazza Fontana) ma che aveva la specialità d’ammantare di veneta soavità anche gli scontri furibondi. I due governi ponte di Leone - ribattezzati lestamente come «balneari» - durarono il primo dal 21 giugno al 4 dicembre 1963, il secondo dal 24 luglio al 12 dicembre 1968. Pause forse di riflessione, sicuramente di relax, che dai centri del potere si trasmettevano ai singoli, piombando l’Italia intera in un limbo d’attesa tranquilla, o forse di speranza che nulla cambiasse. Il Paese faceva da sé.
Questo concetto fu non esplicitamente affermato ma sottinteso nelle parole con cui Leone commentò l’accettazione dell’incarico. Si trattava di realizzare un «riequilibrio nei rapporti tra le forze politiche», e così - Leone dixit - «la mia trepidante riluttanza fu vinta». Un po’ languido e un po’ istrionesco quel «trepidante riluttanza». Ma un grande merito va riconosciuto a Leone per il modo in cui illustrò alle Camere (1 luglio 1963) il suo primo «governo balneare». Facondo giurista e penalista meridionale, abituato ai vezzi e ai merletti dell’oratoria, Giovanni Leone seppe essere d’una concisione esemplare. Aveva senso dell’ironia e dei limiti, gli sarebbe sembrato senza dubbio grottesco diffondersi in programmi e promesse stridenti con le caratteristiche del suo governo provvisorio. Per questo se la cavò in un quarto d’ora, sette cartelline lette con voce vigorosa e inflessioni alla De Filippo. La più breve dichiarazione programmatica nella storia della Repubblica.
Se non altro per questa concisione - rara anche allora, né Togliatti né Moro erano famosi per la
capacità di sintesi - davvero può capitarci di rimpiangere i governi balneari della prima Repubblica. Che almeno galleggiavano quietamente, senza manifestare, affogando, il proposito di risistemare l’Italia, e il mondo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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