Una strage che si legge come un giallo a colpi di scena

Una strage che si legge come un giallo a colpi di scena

«Campo A - Fossa 14/12» di Roberto Nicolick, edito da L. Editrice di Savona con il patrocinio della Provincia e che riguarda la strage nel maggio 1945 dei Biamonti e di Elena Nervo, loro domestica, si legge come un giallo a colpi di scena. I Biamonti, il padre Domingo capitano della Cri, la madre la nobildonna Nenna Naselli Feo e la figlia Angiola Maria di 23 anni, erano una famiglia benestante, non fascista: prelevati la notte del 14 maggio dalla loro villetta a Legino, quartiere periferico di Savona, furono portati al campo di Segno sopra Vado destinato ai sospetti di collaborazionismo con i Nazifascisti. Mandante del sequestro, responsabile con altri tre complici del loro omicidio con arma da fuoco davanti al Cimitero di Zinola, dove furono gettati in un'unica fossa, si appurò esser stato Luigi Rossi, proprietario di un terreno confinante con la loro proprietà. Un caporione partigiano da cui dipendeva il Campo di prigionia di Legino, sito nella locale scuola elementare, in cui si registrò il più alto numero di «fughe» di prigionieri stroncati a raffiche di mitra contro il torace e non contro le gambe, per uccidere.
Per cercare i Biamonti si mossero i familiari e Luigi Rolandi, il fidanzato della figlia. Un amore quello con Angiola Maria nato sui banchi di scuola, a 13 anni. Luigi, alpino in guerra viene aggregato all'ARMIR nella Divisione Julia, è uno dei tre, su 53 tenenti del gruppo, che tornano dalla Russia. Prima era stato impiegato a Tolmino in operazioni di polizia di contrasto ai partigiani titini, quasi un'ironia della sorte perché nel Processo di Savona del 1952/54, istituito per far luce sulla scomparsa di Biamonti e uno dei primi contro ex partigiani il delitto del Rossi viene fatto passare come «non premeditato». Grazie ad una sentenza della Cassazione del 1951, soprattutto grazie a regole di condono previste in «Amnistia e Indulto per reati comuni politici e militari» (1946, Gazzetta Ufficiale), a firma di Palmiro Togliatti, Ministro di Grazia e Giustizia. Il Togliatti, così caro al PCI e suoi eredi, che esortava gli italiani d'Istria ad obbedire al presidente Tito, accogliendo fraternamente la nuova Jugoslavia, che aveva lottato per spostare i suoi confini all'Isonzo. E in sintesi il Rossi - grande colpo di scena di questo drammatico giallo - commise «un atto non premeditato» perché s'indusse ad uccidere i Biamonti la sera del 19 maggio, quando sapeva dell'ordine di scarcerazione, «ma senza visibili preparativi». Il camion che li portò al Cimitero di Zinola si mosse di notte «per fruire delle tenebre o per uno stato di perplessità del Rossi stesso». E appunto secondo la sentenza della Cassazione «l'omicidio è premeditato quando il proposito, compiutamente formato di commetterlo, sia rimasto fisso, irrevocabilmente nell'animo del reo per un apprezzabile periodo di tempo».
L'ordine di scarcerazione ufficiale arrivò la mattina del 21, troppo tardi. Una luce di pietas, anche a risarcimento della legge «azzeccarbugli», è stata la Messa di suffragio che da allora in quella ricorrenza per i Biamonti e la Nervo fa celebrare il fidanzato di Angiola Maria, ora di anni 88 e ricco di tre nipoti. A Nicolick, che è andato a farsi raccontare quei fatti, ha mostrato la foto della donna tanto amata 64 anni prima. L'autore ha saputo apprezzare perché formatosi nello scoutismo cattolico conobbe cristiani carismatici come don Gnocchi ed ha maturato una chiara coscienza rafforzata dall'impegno politico di consigliere comunale a Savona (PDL).
Nessun pentimento da parte degli omicidi, anzi il Rossi al processo si proclamò «innocente». Certo allora c'era un clima di paura: Maria Viglietti, una savonese che abitava sola, «obiettivo indifeso», per tre giorni riceve «visite» di «patrioti» che le requisiscono ciò che possiede; nel campo di Legino Giuseppina Ghersi di 13 anni, presa a calci da tre della polizia partigiana, è stuprata, ammazzata con un colpo in testa sotto gli occhi di detenuti terrorizzati e di colleghi partigiani, divertiti e ghignanti.
Per indagare sui crimini di guerra nel novembre '46 giunge a Savona il Commissario Amilcare Salemi, nativo del Cosentino che viene fatto fuori mentre cena all'Hotel Genova, in una zona centrale. Con dignità la vedova, Concetta Pasquino, che presenziò alle udienze accompagnata dai tre figli piccoli, chiede solo di riavere gli abiti del marito. Al contrario nel delitto Biamonti, il movente, importante come nei grandi gialli, fa schifo (scusate) per la banalità del male: l'avidità fu la molla. La «colpa» dei Biamonti fu di ospitare, come ospite imposta, Andreina Ghione, vedova di un partigiano Rossetti, già militante con il partigiano Rossi. Secondo testimonianze fu la sua amante e, desiderando impadronirsi di ciò che era dei Biamonti, gioielli, casa, aveva cercato di tirare dalla sua la Nervo, al loro servizio da 18 anni. All'onesta Nervo, al campo, furono sequestrate fin le 50 lire che portava nel grembiule. Nelle attenuanti generiche del processo si legge che il Rossi aveva appena 21 anni e che l'Andreina, imbottita delle sue idee, aveva dichiarato che «era giunta l'ora dei signori, che dovevano essere appesi a le lanterne». Il Rossi nel '54, dopo il giudizio di Cassazione, avendo già scontato due anni di carcere dei 27 di condanna, sconta ancora solo 56 giorni e sono assolti i complici (uno accusato di stupro e omicidio).


Molto interessanti le ricostruzioni storiche d'epoca di Nicolick, con la denuncia di una polizia partigiana che aspirava a tenersi a vita «il posto di lavoro» diventando polizia effettiva e con un filo rosso che lega le efferate tattiche partigiane alle Brigate Rosse degli anni di piombo.

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