Roma - Auspica un «ravvedimento operoso» di Fini e teorizza la possibilità che «il momento di chiarezza» cui si è arrivati con la rottura della scorsa settimana possa portare a una convivenza con i finiani che duri «lealmente» fino al termine della legislatura. A poche ore dal voto di sfiducia sul sottosegretario Caliendo, il ministro degli Esteri Franco Frattini prova a tendere la mano convinto che una deflagrazione della maggioranza non sia nell’interesse di nessuno: «Né del Paese, né di Berlusconi e neanche di Fini». Ma - incontrando alla Farnesina alcuni giornalisti prima della pausa estiva - mette anche in chiaro che «il logoramento non è più ammesso» e «al primo accordo che fallisce» si «torna a votare». A quel punto «ognuno si assumerà le sue responsabilità» davanti all’elettorato perché «è chiaro che faremo nomi e cognomi» di chi ci ha portato fino alle estreme conseguenze.
Ministro, davvero pensa che la maggioranza possa andare avanti quasi tre anni in queste condizioni?
«Io credo che Fini non ha altre opzioni se non quella del centrodestra e penso che vista la sua esperienza ne sia consapevole anche lui».
Insomma, nessun contenitore centrista con Casini e Rutelli?
«È una scelta che lo porterebbe solo all’isolamento. L’elettorato di destra, più di quello di Forza Italia, su certe questioni - come per esempio la lealtà e la fedeltà agli impegni - è molto rigido. Basti ricordare come lo stesso Fini cacciò i suoi colonnelli dopo la vicenda della Caffettiera... Ecco, credo che se passasse dall’altra parte i suoi elettori non lo premierebbero».
Anche il centrodestra, però, è ormai diventato per Fini un terreno minato.
«Credo che debba dimostrare con azioni politiche e parlamentari di essere una risorsa per la maggioranza. Bisogna smetterla con il gioco del dopo-Berlusconi».
Pensa che abbia delle chance nella corsa alla successione?
«Oggi non è più visto come un leader del centrodestra né come il successore naturale di Berlusconi. Ma credo che questo risalga a quando ha cominciato a porre sul tavolo temi che non erano nell’agenda della maggioranza. Alcuni alti e nobili, altri fuorvianti. Penso alla battaglia sulla legalità che è sconfinata nel giustizialismo alla Di Pietro. Non si può chiedere che un esponente del governo si deve dimettere solo perché indagato senza capire di aver così abbandonato il dna garantista del Pdl».
A proposito di legalità, che idea si è fatto dell’inchiesta de «il Giornale» sulla casa di Montecarlo?
«Si tratta di un fatto che scaturisce da giornalismo di inchiesta e questo merita delle risposte. Non si può semplicemente dire “risponderò in sede legale”. Qui non siamo davanti ad una intercettazione ma a un fatto alla luce del sole, come quando l’Espresso fece l’inchiesta sui centri di Lampedusa. In quel caso il ministro dell’Interno dovette dare spiegazioni».
Intende dire che ci sono due pesi e due misure?
«Non vorrei che siccome il Giornale non è ostile al governo il tutto venga automaticamente derubricato a fango. C’è stato fango contro Berlusconi tutta l’estate scorsa e nessuno ha detto una parola. A Fini basterebbe dire “non è vero per queste ragioni” e il problema sarebbe risolto».
Crede all’ipotesi di un governo tecnico nel caso di rottura definitiva?
«No. Primo perché la storia insegna che non conviene neanche a Fini. Dini era il catalizzatore dei moderati e dopo un anno di governo tecnico quell’iniziativa politica è morta. Secondo perché Napolitano non è Scalfaro e sono sicuro non si presterebbe a fare un pateracchio».
C’è chi ipotizza un governo tecnico a guida Tremonti.
«Tremonti è legato a doppio filo a Berlusconi e Bossi, due che di governo tecnico non vogliono neanche sentire parlare.
L’impressione è che la resa dei conti ci sarà comunque. Al più tardi a fine legislatura.
«Non lo so. Perché invece non pensare a un operoso ravvedimento?».
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