Sulle orme degli hippy paradossi a Teheran

Trafficata oltre l'immaginabile, inquinata e certamente non bella. Piena dei simboli del vecchio e del nuovo regime, quasi minacciosa nel proliferare di cartelli che intimano di non fotografare, eppure moderna, metropolitana, socialmente viva, culturalmente in fermento

Sulle orme degli hippy paradossi a Teheran

Nostro inviato a Teheran

Trafficata oltre l'immaginabile, inquinata e certamente non bella. Piena dei simboli del vecchio e del nuovo regime, quasi minacciosa nel proliferare di cartelli che intimano di non fotografare, eppure moderna, metropolitana, socialmente viva, culturalmente in fermento. Strano posto Teheran. “Il primo giorno ti intimorisce, il secondo ti piace, il terzo ne hai abbastanza”, sintetizza Steve, irlandese, fermo a un semaforo inutilmente verde a Ferdosi square, quasi un confine invisibile tra il sud povero della città e il nord, dove abita l'upper class iraniana. Steve è al suo terzo giorno qui. E dopo aver visitato Shiraz, Yazd e Isfahan tenta un confronto tra la capitale e il resto della Persia. “Le altre città che ho visto sono molto più belle – ammette - e la gente è incredibilmente espansiva e accogliente con gli stranieri, mentre qui un turista passa praticamente inosservato”.

Ma il giovane irlandese non boccia Teheran: “Il bello di questo posto, però, è che gran parte dei pregiudizi degli occidentali sull'Iran vengono capovolti, e osservando lo stile di vita dei suoi abitanti fai fatica a pensare di essere nel cuore dell'impero del male, e non in una qualsiasi capitale, addirittura europea”. Analisi comprensibile. Lungo Enqelab avenue, il viale della Rivoluzione, gli studenti della Amir Kabir e della Teheran university camminano con le cuffie nelle orecchie o chiacchierano seduti ai tavolini delle chaykhaneh, le diffusissime sale da te. Uscite dai due atenei, le coppie si tengono per mano e si abbracciano sulle panchine di fronte al grande teatro Sharh, nel parco Daneshgu. Le ragazze sono velate molto relativamente: riccioli neri e ciocche biondissime scappano da ogni parte, qualcuna si copre il capo solo uscendo di casa, per strada, e nessuno sembra preoccuparsene. Nei giardini di fronte all'edificio che ospita il Forum degli artisti iraniani i giovani di Teheran vanno a vedere mostre d'arte informale, pranzano al ristorante vegetariano, discutono appassionatamente intorno alla grande fontana dell'ingresso, vestiti esattamente come i loro coetanei occidentali, giusto con qualche fazzoletto di troppo.

Ma Teheran è anche il cuore del regime degli Ayatollah e di Ahmadinejad. A pochi metri da qui c'è quella che una volta era l'ambasciata degli Usa, che altri studenti di Teheran, nel 1979, occuparono all'indomani della rivoluzione, tenendo per ben più di un anno 52 diplomatici americani in ostaggio. C'è ancora il sigillo degli Stati Uniti, scalpellato dagli iconoclasti della teocrazia, accanto al cancello d'ingresso, e ci sono ancora i celebri murales con slogan e disegni contro gli Usa e Israele disegnati lungo tutto il muro di cinta, segno di un gelo che va avanti da 30 anni e che solo ora Obama sta tentando di sciogliere. E il nuovo presidente a stelle e strisce raccoglie quantomeno il vivo interesse dei persiani: la faccia fotogenica di Barack campeggia dalle copertine di Newsweek, in vendita in alcune edicole del centro, e il presidente americano è protagonista anche nelle vignette della satira dei giornali locali, mentre i quotidiani iraniani in lingua inglese tengono la linea, e scrivono che Obama “non basta” a ricostruire i rapporti tra occidente e mondo islamico.

La durezza del regime fa capolino anche di fronte all'ambasciata tedesca, eppure la Germania ha ancora relazioni diplomatiche con il Paese di Ahmadinejad. Sul marciapiede di fronte, una lapide in farsi e inglese ha il sapore dell'anatema, e ricorda che per gli iraniani il nome del governo tedesco “è associato all'orribile catastrofe del massacro chimico perpetrato dal regime ba'athista iracheno durante la guerra che fu imposta all'Iran”, perché Bonn, allora, “rifornì generosamente il regime di Saddam di armi chimiche”. E così gli iraniani, “non dovranno mai scordare la complicità e l'innegabile ruolo del governo tedesco in questo atroce crimine”, conclude la molto poco diplomatica lapide. Eppure lì accanto un negozio di ricambi per auto si pubblicizza scrivendo “all made in Germany”. E anche l'antiamericanismo, ancora latente pure in molte parti della popolazione, è ormai una questione politica più che sociale.

Gli iraniani, che pure agli arabi ancora non perdonano un'invasione di millequattrocento anni fa, non sembrano per la maggior parte troppo risentiti dalle interferenze americane nella storia persiana del '900. I murales sbiadiscono, i fast food proliferano.

E anche se il regime da trent'anni a questa parte fa la faccia truce guardando oltreatlantico, a Mashhad, la città più santa dell'Iran sciita, che ospita il mausoleo dell'Imam Reza, la Khoshgovar Company non ha mai smesso di produrre la Coca Cola.

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