Sussidi e buoni-kebab, moschee contro la crisi Il centro di via Padova ha una cassa per i poveri. E chi è in difficoltà riceve un ticket per pranzare nei locali dei «fratelli» Viale Jenner tutti i giorni dà due pasti a 150 persone. A Segrate funziona

«Non siamo ricchi come la Curia di Milano, e la crisi colpisce anche noi». Abu Schwaima scherza, ma un po’ lo invidia il fondo di solidarietà del cardinale Dionigi Tettamanzi. Lui a Milano ha fondato il primo centro islamico nel 1974, e da vent’anni è l’imam della moschea di Segrate. «Non siamo ricchi ma cerchiamo di dare una mano - assicura - lo facciamo da sempre». Così le comunità musulmane cittadine provano a combattere la crisi economica e a sostenere i «fratelli in difficoltà». «Non passa giorno senza che qualcuno venga a chiederci una mano» dice l’imam. «A loro diamo quello che possiamo, piccole somme, ma se un nostro fratello non può mangiare anche questo poco può essere utile». Segrate dà ai musulmani di Milano e dell’hinterland anche aiuti materiali, per esempio corsi dopo-scuola per i ragazzini, la domenica.
Ma è solo uno degli strumenti di una rete di «welfare» spontanea eppure radicatissima in un tessuto urbano in cui vivono ormai 80mila persone di religione musulmana. Che oggi hanno le stesse difficoltà degli altri. Il centro culturale islamico di viale Jenner ogni giorno fornisce dai 200 ai 300 pasti a fedeli musulmani che altrimenti non avrebbero da mangiare o che comunque scelgono di farlo nell’ambito della loro comunità. Si spiega anche così l’ascendente che imam e direttori dei centri islamici hanno su migliaia, di fedeli. Degli odori delle polpette, della carne, dei sughi preparati in viale Jenner i residenti si lamentano da anni. Sono i preparativi per il pasto di 100-150 persone a pranzo, e altrettante a cena. Intanto la macelleria islamica offre carne conforme ai precetti religiosi. Non solo per la «mensa di viale Jenner», anche per le famiglie, a prezzo «convenzionato».
Tutte le «moschee» cittadine sono anche «uffici di collocamento». Immancabili le bacheche in cui le ditte dei «fratelli» affiggono i loro avvisi di ricerca del personale. O quelli in cui la manodopera si offre per lavori e lavoretti: operai, idraulici, manutentori. L’incrocio domanda-offerta è solo uno dei «servizi» a cui provvede la Casa della cultura islamica di via Padova, come storicamente le nostre parrocchie. L’istituto di Asfa Mahmoud è il più attivo negli strumenti di solidarietà e assistenza, ordinari e straordinari. Non si tratta solo dei 20 o 30 euro ai fedeli che ne hanno bisogno per le spese quotidiane, personali o familiari. Una vera e propria «cassa dei poveri» viene usata come fondo per i contributi. Ma anche la Casa islamica non naviga nell’oro, avverte il direttore. Paga 3mila euro al mese di affitto a un privato, e 4mila al Comune per le palestre in cui il venerdì si riuniscono a pregare dalle 1200 alle 1500 persone. Nel mese di ramadan la Casa mette «in tavola» 250 pasti al giorno. Ora chi ha perso il lavoro, chi non ha soldi per fare la spesa, viene a bussare in via Padova e trova aiuto. L’istituto concede una sorta di ticket da consumare nei locali che vendono kebab, o pizza. Una sorta di buono-pasto che consente a molti di arrivare a sera. «Ma almeno venti persone - confessa Mahmoud - nell’ultimo mese mi hanno chiesto aiuto per tornare definitivamente a casa, perché avevano perso casa o lavoro». In questo caso all’«emigrante di ritorno» si dedica una giornata intera di solidarietà: e con gli oboli raccolti riesce a pagarsi il biglietto aereo.

Dalla «culla alla bara», non c’è momento della vita - lieto o drammatico - in cui i fedeli non trovino aiuto. Accade anche in carcere, o in ospedale. O nell’ultimo viaggio: spesso è grazie alle collette dei centri che i fratelli musulmani tornano per l’ultima volta nei Paesi di origine. Dopo la morte.

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