Teheran, un picnic sulla tomba di Khomeini

Viaggio in Iran a 30 anni dalla rivoluzione. Famiglie in gita, bancarelle con gli ultimi dvd occidentali. Eppure l’immenso mausoleo alla periferia di Teheran resta il simbolo di un regime che non vacilla

Teheran, un picnic  
sulla tomba di Khomeini

Teheran - Il santuario dell’Imam Khomeini è questa cosa qui, più simile a un hangar di aeroporto che a un luogo sacro, quattro alte torri e quattro grandi cupole che lo fiancheggiano, una quinta, in costruzione, che lo ricoprirà. È sulla strada che dalla capitale porta a Qom, la città delle cinquecento moschee e delle massime scuole teologiche, dove lui studiò e poi cominciò la «sua» rivoluzione.

L’altezza delle torri, 91 metri, rimanda all’età in cui morì, il numero dei tulipani scolpiti che ornerà la cupola centrale, 72, quello dei seguaci dell’Imam Hossein trucidati a Kerbala nel 680 d.C, il martirio dopo il quale lo sciismo si fece scisma permamente e religione a sé. All’interno del santuario, nello spazio intorno allo zarih, la grande gabbia per le offerte, ci sono famiglie che fanno un picnic, bambini che giocano, coppie che chiacchierano, poveri che dormono. Sul terreno si allineano grandi tappeti e il tutto ha le dimensioni di un parco pubblico di cemento dove ci si può anche divertire e non solo pregare. Sembra che questa fosse la volontà dello stesso Khomeini. Non sorprende sia stata rispettata. Nei negozietti che esternamente gli fanno corona, trovi i dvd di Mister Bean, Superman, la serie di Pirati dei Caraibi...
Fra il santuario e Behesht-e Zahra, dove è stato ricavato il «Cimitero dei martiri», c’è, venendo da Teheran, una fermata di metropolitana e durante il viaggio mi rigiro fra le mani la banconota di pochi rial con il volto di Hussein Famideh, il bassiji tredicenne che per fermare un carro armato iracheno fece del proprio corpo una bomba. Sull’oltre mezzo milione di morti della guerra contro l’Irak, circa centomila furono i bassiji, i «mobilitati» al fronte, fra i 12 e i 18 anni d’età. In mezzo ai pini del cimitero, le teche di vetro che li ricordano contengono una foto, una lettera, un oggetto-ricordo del martire scomparso: un accendino semibruciato, un modellino di elicottero, la piastrina militare di riconoscimento, un rosario, un proiettile.

In tutte, idealmente, c’è una chiave di plastica. Khomeini ne importò 500mila da Taiwan: simboleggiavano le chiavi del paradiso di Allah...
La generazione superstite dei bassiji è quella che vent’anni dopo ha contribuito a eleggere alla presidenza della Repubblica Mahmoud Ahmadinejad e anche questo vuol dire qualcosa, in un Paese di 70 milioni di abitanti di cui il 70 per cento ha meno di trent’anni, il tasso di disoccupazione medio è del 25 per cento, ma raddoppia per la fascia d’età giovanile, l’inflazione ufficiale è al 13 per cento, quella reale al 25, un quarto del Pil è speso in sussidi, il 70 per cento dell’economia è sotto il controllo statale attraverso le bovyad, le fondazioni statal-religiose esentasse, e sono gli iraniani, insomma, ad aver bisogno dello Stato, più che lo Stato ad aver bisogno di loro. «L’Iran è forse il Paese musulmano dove si vota di più, ma si cambia di meno» ha detto Moshen Kadivar, professore di filosofia islamica all’Università Terbiat di Teheran.

Un santuario e un cimitero, intesi come fede, sacrificio, memoria, sono un buon punto di partenza per cercare di capire che cosa sia e dove vada questa terra antica e orgogliosa che tanto turba i sonni dell’Occidente e rispetto alla quale l’Occidente stesso ha una coda di paglia fatta di cecità, insipienza, avidità, sensi di colpa. Mai come in quest’ultimo trentennio l’Iran è stato agli onori della storia e della cronaca: una rivoluzione unica al mondo, una guerra durata un decennio, un dopo-Khomeini che, a cavallo del nuovo secolo, ha rilanciato, complici anche gli sconvolgimenti mediorientali, la sua immagine e il suo esempio. Adesso che Teheran festeggia i suoi primi trent’anni di Repubblica islamica, ricordare come e perché nacque non è semplice amarcord.

Le facce. A volte bastano da sole per raccontare una rivoluzione. Nel ’79 quella dello scià Reza Pahlavi era magra e allungata, grigiastra anche nelle immagini a colori dei giornali e delle riprese televisive. Tumore al fegato, era stato il responso dei medici, ma la malattia aveva preso vigore proprio mentre il potere gli si scioglieva fra le mani e mese dopo mese l’Iran gli si rivoltava contro, opponendo alla repressione militare l’imponente flusso delle manifestazioni di protesta popolari. Come una lenta diarrea, quella resistenza tenace svuotava lo Stato d’ogni sua forza, rendendola vana e inutile, e allo stesso modo la linfa della vita defluiva da quel volto un tempo altero e sprezzante, a lungo abbronzato dal sole invernale di St. Moritz, e lo consegnava a una via di mezzo fra la cera e la terracotta, una maschera mortuaria anzitempo.

Il volto di Khomeini mentre esce dal Boeing 747 che da Parigi lo riporta a Teheran è invece quello severo e accigliato, intransigente e deciso di un vecchio di ottant’anni, le folte sopracciglia arcuate e nere, la lunga barba bianca. Da almeno quindici anni predica contro lo scià, con un linguaggio semplice che le audiocassette portano in tutte le moschee, in tutti i bazar. «Svegliatevi. Se ne deve andare» è il refrain che le apre dopo l’invocazione ad Allah clemente e misericordioso. «La fine del regime è vicina» quello che lo chiude. Adesso è tornato dall’esilio, ha vinto.

Ancora dieci anni e i funerali di Khomeini saranno un’esplosione di dolore collettivo, la bara in balia della folla, il suo sudario disputato a brandelli come una reliquia. In quell’arco di tempo c’è stato spazio per una guerra in cui l’Irak ha fatto da braccio armato all’Occidente timoroso che la rivoluzione islamica si propaghi. Sul terreno sono rimasti oltre mezzo milione di morti su entrambi i campi del conflitto, e in quello iraniano il cementarsi di un orgoglio nazionale e religioso.
Come e perché un Paese che sembrava correre verso Occidente si sia trovato a essere l’alfiere di un nuovo Oriente fiero e privo di sensi di colpa, è uno di quei paradossi della Storia che vale la pena indagare. Ryszard Kapushinski provò a farlo a caldo, a ridosso di quel finale di partita che vedeva un aereo imperiale decollare, con il sovrano in esilio, e un aereo di linea atterrare, con lo ieratico ayatollah che ne prendeva il posto. Uscito nel 1982, Shah-in-Shah non è tanto o solo un reportage sul campo, ma un catalogo ragionato di fatti e gesta, luoghi e uomini.

Al suo ritorno in patria Khomeini si installò di nuovo a Qom, 150 chilometri dalla capitale, grigia, piatta e però luogo di fervore e di fede militante. Riceve in casa della figlia, seduto su una coperta stesa per terra. Dalle sue finestre si vedono le cupole delle moschee e il cortile della madrasa, mosaici turchesi, minareti verdi-azzurri. Sono proprio le moschee ad aver decretato il suo successo, ma si sbaglierebbe a coglierne solo l’aspetto religioso. Per gli iraniani rappresentano una sorta di porto e di approdo, teatro di vita sociale e politica. Lo scià ha provato a imbrigliarle; ha fatto arrestare degli ayatollah, ne ha fatto torturare e ammazzare altri, ma ha anche cercato di mostrarsi un musulmano fervente, si è recato in pellegrinaggio nei luoghi santi, si è fatto ritrarre immerso in preghiera, ha raccontato visioni mistiche... Rispetto al padre che sarebbe voluto essere un altro Atatürk e le moschee le aveva spianate a colpi di cannone, è un passo avanti. Oppure un passo indietro...

Nella sola Teheran ce ne sono più di mille, fuse nel panorama urbano: vicino ci sono i bagni pubblici per le abluzioni, i ristoranti e le sale da tè perché dopo la preghiera il musulmano beve e mangia volentieri... Ogni moschea rimanda a un bazar, ed è questo combinato disposto a fare la sua forza: la religione e gli affari, il culto e il divertimento. Metterglisi contro è molto difficile, sottovalutarlo un errore.

Lo scià lo commette. Gira poco per il suo Paese, preferisce il Palazzo reale e le capitali europee. Si circonda di incapaci e di corrotti, una petrol-borghesia che nei primi anni Settanta del boom petrolifero perde la testa di fronte alla pioggia di miliardi che le passa fra le mani. Ma anche i consiglieri stranieri non brillano per intelligenza, in primis quelli americani. Non conoscono l’Iran e non capiscono che cosa vi succede, pensano sia, come sempre, tutta colpa dei comunisti, Tudeh si chiama il partito che li rappresenta. Sono loro che vanno schiacciati. Ma fra arresti, condanne ed emigrazioni la decimazione comunista c’è già stata e non si vuol vedere che il pericolo viene da tutt’altra parte.

Agli sforzi modernizzatori dello scià, Kapushinski crede poco. Non perché inesistenti, ma perché velleitari. L’idea di fare di un Paese semi-analfabeta e senza scarpe la quinta potenza mondiale sa più di paranoia che di intelligenza. «Grande Civiltà» è lo slogan, ma lo scià non sa o non vuol sapere che l’Iran non ha porti attrezzati e così le navi mercantili restano alla fonda per mesi mentre i costi di noleggio vanno alle stelle, non ha magazzini e intanto le merci marciscono, non ha mezzi di trasporto, né strade, né ingegneri...

Dovrebbe partire dall’elemento umano, quadri, funzionari, esperti, ma questo significa scuole, università, intellettuali, dibattito, opinioni e uno Stato dittatoriale qual è il suo vede tutto ciò come il fumo negli occhi. Il complesso di inferiorità nei confronti dell’Occidente fa il resto. Negli anni Venti il padre di Reza prese il potere con un colpo di Stato sponsorizzato dagli inglesi e lo perse, abdicando, per loro decisione. «We brought him, we took him» riassumerà Churchill: fatto e disfatto... Reza deve a propria volta agli americani il colpo di Stato che ha tolto dal suo cammino il primo ministro Mossadegh, l’uomo che voleva nazionalizzare il petrolio iraniano, il vecchio, geniale, patetico Mossy che voleva una monarchia costituzionale...

Così lo scià pensa di importare gli specialisti dall’estero: non hanno grilli politici per la testa e, visto che sono ben pagati, penseranno solo a lavorare. La «Grande Civiltà» assume per gli iraniani il senso di una grande umiliazione: è come se il loro re considerasse l’intera popolazione merce di scarto, la cui unica libertà consiste alla fine nello scegliere fra la polizia segreta, la Savak, che la reprime, e il mullah che la difende...Si sa come è andata a finire.

Scrive Kapushinski: «La lotta contro lo scià non fu condotta solo da Khomeini e dai mullah, ma vide operai, studenti, scrittori, studiosi». Vi si mischiavano più elementi, sociali, morali, intellettuali, politici e il tutto veniva a comporre una miscela a cui lo sciismo iraniano, in quanto fede minoritaria, di opposizione e di sacrificio, dava un valore aggiunto, identitario e resistenziale, così come l’essere eredi di una Persia millenaria, divenuta musulmana ma mai stata araba, sempre impero o nazione, mai colonia.

Fu una rivoluzione borghese e populista, cui la decennale guerra con l’Irak avrebbe aggiunto elementi di militarizzazione e di isteria dottrinaria nella vita pubblica e nel costume. Durò 13 mesi, non violenta nelle manifestazioni di protesta, inutilmente cruenta nella repressione.

Lo slogan che la scandiva fu «Nasharki, Nagarbi, Jamhuriyya islami», né destra né sinistra: solo repubblica islamica. Un altro «Iran, Iran, Iran Chun-o-marg-o-osjan», Iran, Iran, Iran, sei sangue, morte, rivolta. Dicevano entrambi la verità.
(1. Continua)

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