nostro inviato a Padova
Per restare nel bestiario da cui loro stessi hanno largamente attinto («porci assassini» ai poliziotti, «cani servi» ai giornalisti), gli autonomi di Padova ieri hanno abbaiato ma non morso. Hanno urlato slogan feroci e bestemmie, hanno proclamato solidarietà ai presunti terroristi arrestati il 12 febbraio, hanno provocato in ogni modo le forze dell’ordine e alimentato una fortissima tensione. Hanno strappato i taccuini a un paio di cronisti che si erano avvicinati e spaccato l’apparecchio di un fotografo del Gazzettino che voleva riprenderli in primo piano. «Vattene bastardo di merda, vai a fotografare i poliziotti», e con un calcio hanno mandato in frantumi il flash della Nikon appesa al collo. Ma la tensione non si è materializzata in scontri. Per un momento i circa 200 del Gramigna e degli altri centri sociali radunatisi alle 16 davanti alla stazione di Padova hanno tentato di muoversi in corteo verso il cuore della città, ma le forze dell’ordine, molto più numerose e in equipaggiamento antisommossa, hanno stretto il cordone bloccandoli. Così i dimostranti sono rimasti chiusi nel loro fortino, la schiena rivolta a poliziotti e carabinieri che avevano circondato la zona, e si sono trincerati dietro una fila di striscioni appesi alle pensiline sul piazzale. Tra questi campeggiava una gigantesca stella rossa a cinque punte sovrastata dalle sbarre di un carcere e accompagnata dalla scritta «Soccorso rosso». «Per tutti i compagni libertà», scandivano, anche se le accuse sono di associazione sovversiva e banda armata. Ma se lo spiegamento di centinaia di uomini ha evitato problemi di ordine pubblico, la violenza delle parole è esplosa in modo brutale e il bersaglio numero uno è stata la sinistra al governo, compresa l’ala più radicale che pure ha sempre manifestato simpatie per l’area antagonista. «Votano la guerra e parlano di pace, Bertinotti sei peggio dell’antrace». «Governo di destra governo di sinistra, chi paga le guerre è il vero terrorista». «Prodi in miniera Fassino in fonderia, questa è la nostra democrazia». «Abbiamo i compagni al potere» e guarda cosa combinano. In realtà sono «socialfascisti». Il governo è colpevole di non aver ancora cambiato la legge di quell’«affamatore dei lavoratori» che era Marco Biagi, di finanziare le «guerre imperialiste» e di «reprimere ogni manifestazione del pensiero diversa da quelle di regime». «Si continua ad agitare lo specchio di un’eversione virtuale mentre non si fa nulla contro il vero terrorismo: quello che produce due morti quotidiane sul lavoro». E la sinistra radicale, invece di difendere i compagni arrestati, «li ha additati come pericolosi terroristi». Anche Bertinotti e Cossutta «hanno il culo attaccato alle poltrone del potere, gli interessa solo quello»; mentre Sergio Cofferati è un bugiardo quando sostiene che «gli operai hanno ottenuto grandi conquiste» e assieme al sindaco di Padova, il diessino Flavio Zanonato, comanda «la genia dei sindaci di sinistra che hanno abbracciato le parole d’ordine della destra come sicurezza e legalità». Ce n’è anche per i «capoccia sindacalisti», che alimentano «un clima di repressione». Al secondo posto della hit parade degli insulti degli autonomi, la polizia. Cani, porci, assassini in divisa. «I macellai di Genova fanno carriera». «Via via la polizia, tornate tutti a Nassirya». «L’unico tricolore da onorare è quello steso sulle vostre bare». I «veri terroristi» sono a turno lo Stato, gli sbirri, i magistrati, Zanonato e il questore, che non ha concesso il permesso per un corteo in centro città ma soltanto una «manifestazione in forma statica in una piazza periferica». Gli autonomi hanno disobbedito perché «è inutile vietare, la solidarietà non si può fermare». Si sono radunati davanti alla stazione, ma non ce l’hanno fatta a incolonnarsi in corteo. Sistemati in qualche modo un generatore, mixer e amplificatori, i militanti del Gramigna e degli altri centri sociali giunta a Padova (come il Vittoria, il Leoncavallo e il Firenze Sud) hanno inalberato cartelli con i nomi dei detenuti invocandone la libertà e leggendo alcune lettere spedite dal carcere e firmate «a pugno chiuso» come quella di Amarilli Caprio, l’unica donna arrestata, o di Claudio Latino, in isolamento a Livorno.
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