Cultura e Spettacoli

Tintoretto ritoccato da Jean-Paul Sartre

Negli anni ’50 il filosofo era ossessionato da quello che chiamava «il sequestrato di Venezia»

Negli anni Cinquanta Jean-Paul Sartre lavorò a più riprese intorno alla figura e all’opera del Tintoretto, una sorta di ossessione, quasi, che se faceva dell’artista «il sequestrato di Venezia», secondo il titolo di uno dei saggi che gli dedicò, farà altresì di lui stesso «il sequestrato del pittore». Nel corso di un decennio, fra testi editi e altri rimasti incompiuti, oppure non pubblicati, la materia dilatò fino ad assumere la dimensione di un volume vero e proprio, quale quello che oggi l’editore Christian Marinotti dà alle stampe: Tintoretto (pagg. 322, euro 29).
A leggerlo con attenzione l’impressione che si ha è quella di un confronto accanito in cui l’interpretazione storico-materialista, l’arte come prodotto-merce di un’epoca, il pittore come lavoratore e non creatore, non sempre ce la fa a dar conto di quel qualcosa di unico e di ineffabile che distingue un artista da un altro, un precursore da un semplice contemporaneo del proprio tempo. Dando spessore a quelle che a volte sono pure idiosincrasie personali, Sartre allestisce un corteo di interpretazioni nel quale gli artisti chiamati a rappresentarlo sono più i pedoni di un complesso gioco di scacchi intellettuale che non le figure in carne e ossa che allora si trovarono a operare. Si prenda come esempio la contrapposizione fra Tiziano e Tintoretto, il primo una sorta di vassallo dell’ordine costituito, inautentico glorificatore della decadenza della Serenissima, il secondo rivoluzionario cantore della realtà, contrapposizione che farà dire a Michel Butor che Sartre parlava del Tiziano «come se non lo avesse nemmeno visto»...
Allo stesso modo, la scelta minuziosa di una ventina di quadri all’interno di un corpus sterminato, serve allo scrittore francese per sottolineare ciò che a lui appare come una fissazione d’artista, la rappresentazione della «pesantezza». Cent’anni prima di Newton e di Galileo, Tintoretto «scopre» l’onnipotenza della forza di gravità, dipinge corpi in perenne squilibrio, santi e angeli che «pesano». Da questo punto di vista San Marco libera uno schiavo, oggi alla galleria dell’Accademia, è esemplare: per la prima volta, dice Sartre, il committente dell’arte del Tintoretto ritrova in quei quadri la medesima «servitù» che lo limita nella vita quotidiana, il corpo a corpo con la materia.
Realizzato all’età di trent’anni, quel dipinto segna, a suo dire, una svolta: stordisce, scandalizza, ma non rassicura, non convince, allontana. Se fino allora il Tintoretto era stato la grande promessa, d’ora in poi è un perturbatore della quiete pubblica. Trasformandolo in una specie di «pirata che naviga sotto bandiera nera», Sartre fa della sua immensa produzione, per numero e dimensioni, della sua capacità mimetica, dell’utilizzo della sua bottega come fucina di copie originali e non di semplici imitazioni, un combinato disposto dell’artista contro il proprio tempo, del rivoluzionario nell’epoca della reazione, della conservazione, della restaurazione.
Da qui a vedere Tintoretto dentro e però contro il proprio tempo il passo è breve: «Suddito prudente di uno Stato di polizia, cede sempre o finge di cedere; cittadino autoctono della città più bella, la sua arroganza esplode suo malgrado: può spingersi fino al servilismo senza perdere le sue anchilosi d’orgoglio. Nulla serve: gli intrighi che ordisce contro i protetti dell’aristocrazia falliscono per impazienza, per delle irreparabili sbadataggini, oppure gli si ritorcono contro. Ecco qualcosa che getta una nuova luce sul rancore della Serenissima. Questo suddito reclama ciò che forse gli si concederebbe, ma quella sottomissione litigiosa infastidisce le autorità: esse lo considerano un ribelle. O, tutt’al più, un sospetto, e in fondo non hanno torto».
Così, l’immagine che Sartre costruisce è quella di un «pittore di bottega che non ha nulla del semidio», conosciuto, celebre, «illustre mai: la sua clientela profana non è abilitata a consacrarlo». Perché poi il suo pubblico è fatto di «borghesi, grandi o piccoli, il solo vero pubblico che egli ami». La ricostruzione sartriana è convincente, penetrante, eppure storicamente discutibile. Lo «scandaloso» San Marco che quasi gli aliena i favori della città è lo stesso quadro che Pietro Aretino elogia pubblicamente per iscritto e che gli fa dire come con esso egli abbia praticamente vinto la gara fra gli artisti di Venezia; quel dipinto è il primo di una serie di pietre miliari della storia dell’arte, dalla Lavanda dei piedi al San Rocco risana gli appestati alla Creazione degli animali al Peccato originale...
Per rafforzare l’immagine del Tintoretto «pirata» Sartre taglia via ogni rappresentazione femminile che non sia legata a quel concetto di «pesantezza», di gravità dei corpi che nella sua lettura lo fa grande e però «maledetto», ma così facendo rimangono fuori da Susanna e i vecchioni alla Liberazione di Arsinoe alla Natività del Battista... Anche il suo «arrivismo», spiegato con la volontà di innalzarsi dalla condizione di artigiano tintore, ha un che di forzato: un contemporaneo del pittore, Raffaello Borghini, e il suo primo biografo, Carlo Ridolfi, raccontano che il padre di Jacopo Robusti era un «cittadino», membro cioè di un ceto elevato all’interno della gerarchicamente strutturata società veneziana, beneficiario perciò di cariche pubbliche, di privilegi mercantili.
Ciononostante, il Tintoretto sartriano ha una sua coerenza e una sua forza ed esse devono non poco anche alla scrittura che le anima, corposa, ironica, indignata, che specie nel saggio dedicato al «Sequestrato di Venezia», esplode in squarci di pura bravura. «L’infelice ama sino alla disperazione una città che si dispera e che non vuole riconoscerlo: questo amore fa ribrezzo all’oggetto amato. Al passaggio del Tintoretto ci si scosta: puzza di morto. È esatto. Ma che odore hanno le feste patrizie, la carità borghese e la docilità del popolo? Il Tintoretto ha portato il lutto di Venezia e di un mondo; ma quando è morto, nessuno ha portato il suo e poi è calato il silenzio, delle mani ipocritamente pie hanno steso un velo sopra le sue tele. Strappiamo questo velo nero, troveremo un ritratto ricominciato cento volte. Quello di Jacopo? Quello della regina dei mari? Come preferite: la città e il suo pittore hanno lo stesso volto». Chapeau, è il caso di dire..

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