Sport

Torna De La Hoya La macchina da soldi non scende dal ring

Torna De La Hoya La macchina da soldi non scende dal ring

Ancora una volta il padrone dell’azienda manda in scena se stesso. Niente di speciale, lo fanno in tanti. Se non fosse che questo va a prender pugni. E naturalmente milioni di dollari. Ci risiamo con Oscar De La Hoya. Ci risiamo nel senso che questo «figlio americano», come vuole il titolo della autobiografia, da almeno otto anni lascia tutti col dubbio dopo ogni match: continua o si ferma? La fame di vanità, il piacere della sfida a se stesso e lo spirito d’imprenditore che ne ha fatto una macchina da soldi, divorano ogni barriera dell’autoconservazione. Cambia mogli, per ora è alla terza, ma non c’è nulla che lo attragga quanto le corde di un ring, per dire: vediamo chi è più forte. E in questa sfida continua c’è dentro di tutto: l’anima messicana, il vizio di famiglia (anche papà e nonno erano pugili), l’abitudine alla violenza nelle strade dell’east side di Los Angeles, la megalomania che finora non l’ha fermato in alcuna impresa. Ha vinto il mondiale in sei categorie, è salito e sceso di peso come il fisico fosse fatto di gomma, ha inciso un disco ed ha vinto il Grammy nel 1999, è diventato il più importante impresario pugilistico affidandosi a Richard Schaefer, un ex bancario, ha rischiato al gioco, è passato indenne da una storia scabrosa in cui è stato fotografato in lingerie, calze a rete e tacchi a spillo.
Per non smentirsi, anche stavolta sembra pronto all’ultimo match della carriera: avversario Manny Pacquiao, il filippino definito miglior pugile di tutte le categorie, fino a qualche tempo fa boxeur della sua scuderia. Ma non c’è da credergli, nonostante i 35 anni e le 5 sconfitte rimediate proprio quando la sua attività imprenditoriale è andata in conflitto d’interessi: pugile sul ring, fondatore, padrone, azionista della Golden Boy (è il suo soprannome) Production, polo manageriale in concorrenza con l’ex galeotto Don King e con la Top Rank di Bob Arum (suo ex promoter che stavolta organizza in società con lui). Nella Golden Boy Oscar figura come pugile e come organizzatore. Combatte contro i boxeur della sua scuderia e nelle ultime occasioni ha perso e se l’è presa con i giudici. Se fossimo in Italia penseremmo alla sudditanza psicologica: figurati se favoriscono l’avversario! Invece da quelle parti sembra tutto vero, tanto che, per quest’ultimo incontro (notte di domani a Las Vegas, Sky calcio due in diretta alle 3), Oscar ha già messo le mani avanti. «Negli ultimi match persi ai punti c’è stato qualcosa che non mi ha convinto. Sfido chiunque a dire che li ho persi tutti. Solo il verdetto contro Bernard Hopkins non è contestabile: mi ha battuto per ko». Hopkins, The executioner di Filadelfia, è anche diventato suo socio e continua a far parte della scuderia di pugili.
Insomma nell’attività di De La Hoya ci sono le due facce della boxe di oggi. L’organizzatore che pensa solo agli affari, si inventa reality a base di pugni, vende la boxe come un grande fratello, pugili scrutati dalle telecamere giorno e notte durante la preparazione. Eppoi il pugile di successo, il divo, una delle ultime facce da pugni capaci di lasciare il segno. Non a caso stavolta si è affidato ad Angelo Dundee, il manager di origini italiane, uno dei più grandi personaggi del pugilato che ha guidato 15 campioni del mondo, ma soprattutto Cassius Clay e Sugar Ray Leonard. De La Hoya forse non sarà mai grande come quei due, ma non si è voluto negare il vezzo che serve al curriculum.
Davanti al ragazzo d’oro ci sarà un piccolo filippino, nato peso mosca, salito di peso negli anni, quattro mondiali in quattro categorie ed ora è pronto per i welters, ovvero 16 kg dopo. Per la boxe non è una novità, e nemmeno per De La Hoya partito peso piuma e finito fra i medi. Ora torna in una categoria che non tocca da sette anni: un rischio. Pacquiao è bravo, più giovane, più veloce. De La Hoya ha più fisico e pugno più potente. Forse l’ha studiata bene per vincere: il match con Hopkins (più fisico e più pugno) deve avergli dato l’idea.
Ma per tutti e due il gioco vale: un match da 100 milioni di dollari, venduti i 16 mila biglietti dell’esaurito incassando 17 milioni di dollari, il resto arriverà dalla pay per view. E De La Hoya ha promesso di pagare all’avversario 3 milioni di dollari per ogni libbra (453 grammi) in più rispetto ai 66,678 kg previsti. Ogni rischio a peso d’oro.

Non a caso è un golden boy.

Commenti