da Mae Sot (Thailandia)
Alle dieci del mattino il telefono è rovente. Squilla dall’alba e da allora il signor Bo Kyi non fa altro che riempire fogli a quadretti e pagine di computer. La conversazione dura pochi secondi, riprende per qualche minuto, cade di nuovo, riparte su un secondo cellulare. «È così ogni mattina, ma diventa sempre più difficile - spiega il numero due dell’Associazione per i prigionieri politici in Birmania - il regime controlla tutti i numeri, tutte le linee, molti dei nostri sono già stati arrestati, bisogna fare in fretta, dall’altra parte rischiano la vita o almeno vent’anni di galera». Gran parte delle notizie sugli arresti, sulle proteste e sulle attività dell’opposizione passano da quest’ufficio, non lontano dal quartiere musulmano di Mae Sot, cittadina sul confine tra Thailandia e Birmania. La mezza dozzina di volontari con gli auricolari piantati nelle orecchie e la testa china sui computer intorno al tavolo di Bo Kyi sanno bene che cosa rischia la voce dall’altro capo della cornetta. «Il più fortunato di noi ha fatto sette anni di prigione, sappiamo cosa accade là dentro», chiarisce Aung Kyaw Oo alzando la testa dal computer. Lui ne ha fatti quattordici. È entrato in galera a 24 anni e n’è uscito a trentotto. Adesso ne ha 40, ma lo sguardo sperduto è un diario ancora aperto. Il suo vicino di tavolo si alza in piedi, mostra la gamba paralizzata, bloccata come un tronco di legno. «Guarda - racconta mentre se la tira lungo la stanza - me l’hanno ridotta così nel carcere di Insein, a Rangoon, a furia di calci e bastonate nella schiena».
In quello stesso carcere arrivano in queste ore nuovi prigionieri. Tra loro vi sono molti monaci, tantissimi militanti vicini al movimento degli studenti e alla Lega per la Democrazia di Aung San Suu Kyi. «Ieri notte e la notte precedente le retate si sono moltiplicate - riferisce Bo Kyi - poche ore fa sono entrati in almeno due monasteri. Uno è quello accanto alla pagoda di Shwedagon, l’altro non siamo riusciti ancora a localizzarlo. Solo a Rangoon, secondo quanto ci raccontano al telefono, hanno portato via duecento persone. Stanno colpendo duro, stanno buttando in prigione tutti i responsabili dell’opposizione, dai vertici fino all’ultimo militante». In queste condizioni pensare a una ripresa delle manifestazioni è quasi impossibile. «Sta succedendo quanto temevamo, la visita dell’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari è stata digerita come una missione di routine, non appena lui se n’è andato la giunta militare ha ripreso i vecchi sistemi. A Rangoon in questo momento ci sono almeno duemila persone in carcere. Per far posto a tutti hanno requisito le stanze dell’Istituto di Tecnologia a fianco del penitenziario di Insein. Far ripartire la protesta, sarà impensabile per mesi. Potrebbero provare in altre città. Ma a Rangoon tutto mi sembra bloccato, finito».
La preoccupazione più grande di Bo Kyi e degli altri militanti è risvegliare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulle terrificanti condizioni del sistema carcerario birmano e sulle violazioni dei diritti umani commesse quotidianamente da poliziotti e carcerieri. «Il problema non è se ti tortureranno, ma quanto riuscirai a sopravvivere - spiega il segretario dell'associazione ricordando i suoi nove anni d’inferno -. Ti bastonano quando ti arrestano e per tutta la durata degli interrogatori. Quando arrivi davanti alla corte, e in dieci minuti ti ritrovi condannato a un minimo di sette anni di prigione, pensi di esser arrivato alla fine del calvario, ma è solo l’inizio... in carcere continuerai a venir colpito e a soffrire fino all’ultimo giorno di pena. La tortura nelle carceri birmane non finisce mai».
Il vero terrore di tutti i detenuti è il cosiddetto «tik tok». «All’inizio - ricorda Aung Kyaw Oo - è solo il rumore di un bastone calato piano sulla tempia. Sulle prime non fa male, ma dopo dieci minuti senti solo quello, t’affonda nel cranio ogni tre secondi, ti scuote il cervello. Dopo qualche ora ti attraversa la colonna vertebrale, ti agita come una scossa. Dopo un giorno non vivi più, esiste solo il tuo cervello trapanato, un’onda di dolore senza più coscienza. Quando termina, se non sei già impazzito, hai bisogno di settimane per tornare a dormire o parlare.
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