La tremarella dei vecchi partiti di fronte alla Grande riforma

di Roberto Chiarini
S ono passati ormai trent’anni, un periodo interminabile se confrontato con i tempi delle riforme di altre democrazie, da quando in Italia ha fatto irruzione il tema della Grande Riforma, ossia la modifica della seconda parte della Costituzione. All'inizio (siamo nei primi anni Ottanta) la spinta proveniva dalla domanda di una maggiore governabilità, il che equivale a dire richiesta di rafforzamento dei poteri dell'esecutivo. Col tempo il discorso si è allargato ad altri aspetti della vita istituzionale: dal federalismo alla riduzione del numero dei parlamentari, dalla differenziazione delle funzioni di Camera e Senato alla separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici, ad un diverso assetto del Consiglio superiore della magistratura, solo per ricordare i più rilevanti. Il confronto sul tema ha avuto un andamento sussultorio, con un bilancio a dir poco sconfortante. Spicca, insomma, l'inconcludenza del processo avviato trent'anni fa. Del resto, la stessa modifica della legge elettorale (1993) è stata approvata sull’onda di una drammatica emergenza, senza alcun serio riesame dei paradigmi culturali su cui il mondo politico non solo aveva prima costruito e poi difeso fino allo stremo delle forze l'impianto costituzionale originario, ma anche forgiato la sua stessa identità. La più tenace resistenza al cambiamento è sempre stata opposta dalla cultura del parlamentarismo e del proporzionalismo, fondativa della nostra Repubblica e in seguito elevata a mito intangibile tout court della nostra democrazia.
Si può ricorrere alla controprova dello sbarramento opposto a ogni eventuale modifica ricordando cosa accadde quando il nostro ceto politico rispose a una «sfida» proveniente dall'estero. Quel che è risultato del tutto indigeribile è un rafforzamento dell’esecutivo a danno del parlamento che configuri una qualche forma di presidenzialismo. Presidenzialismo= svolta autoritaria è l’equazione da sempre istituita dalla cultura democratica prevalente. Figurarsi, poi, se a proporlo è Berlusconi. In questo caso la riforma viene vissuta come mero compimento di un’opera di liquidazione delle libertà democratiche: obiettivo in cui si riassumerebbe la missione politica del Cavaliere a partire dal giorno stesso in cui è «sceso in campo».
Non era così, però, quando si alzarono le barricate di fronte al solo pericolo che si prendesse in considerazione il modello presidenzialista adottato, a cavallo degli anni Sessanta, dalla Francia di De Gaulle al fine di correggere le distorsioni della IV Repubblica: frammentazione partitica e instabilità governativa. Da noi non c’erano allora né un ampio schieramento politico e nemmeno un leader autorevole ad avanzare una proposta di tipo presidenzialista. Tuttavia, l'alzata di scudi fu generale e, con poche sfumature, la reazione fu di grande allarme per la democrazia.
Di «scivolamento della Francia verso il fascismo», di «colpo di Stato bonapartista», addirittura di «plebiscito hitleriano» parlarono l'Unità e Rinascita: con simili sobrie qualifiche il Pci accolse la svolta presidenzialista.
Non fu da meno l’Avanti! A parte una difesa d'ufficio del socialismo d’oltralpe, non si fece riguardi ad usare titoli del tipo: «colpo di Stato bonapartista», «seduzione di cesarismo e bonapartismo», «conservatorismo totalitario». Il Psi riconosceva che in Francia non era presente «un vero movimento fascista», ma - si ammoniva - «non sempre il fascismo segue la stessa strada». Quanto al sistema maggioritario, l'apprezzamento più benevolo era che si trattasse di un metodo «truffaldino».
Per trovare espressioni meno tonanti, bisogna guardare alle riviste del perimetro socialista o, meglio, laico-democratico. Tempi moderni si rifiutò di equiparare gollismo a fascismo, limitandosi ad una più benevola definizione: «mendesismo di destra». Di una «minaccia fascista» incombente si diceva, viceversa, convinta la pur moderata Critica sociale. Per L'espresso non c’erano dubbi sul carattere «autoritario e conservatore» dell’esperimento gollista, parificabile in definitiva anche per il settimanale ad un «nuovo fascismo». Se una diversità di pareri emergeva era sul tipo di fascismo che si affacciava con la proposta presidenzialista: se si dovesse considerare una «dittatura duratura delle élites» (Passato e Presente), «un putsch della borghesia monopolista con l'appoggio della sinistra» (Nuovi Argomenti») o solo un «regime» (Il Mondo). Una solitaria voce stonata nel coro era la socialdemocratica Corrispondenza socialista. La rivista di Eugenio Reale escludeva che in una proposta presidenzialista si nascondesse il pericolo di una dittatura.
Concorde, in sostanza, nel giudizio negativo, era la Dc. La sua prima vera preoccupazione era stornare da sé l’ombra di simpatie presidenzialiste, appunto perché lo giudicava un pericolo per la democrazia. Il Popolo negava che De Gaulle fosse un novello Napoleone e, tanto meno, che Fanfani fosse il De Gaulle italiano, ma conveniva che si fosse in presenza di «avventure francesi». Rassicurava, comunque, che si potessero effettuare da noi scivolamenti analoghi. La soluzione gollista era da considerarsi «non una condanna del sistema dei partiti, ma della sua degenerazione», di cui il partito democratico-cristiano era - ça va sans dire - l’antidoto.
Anche se per via traversa, arriviamo con ciò al nocciolo della questione. I partiti dell’arco costituzionale potevano differenziarsi nell’individuazione delle cause dello scivolamento vero il presidenzialismo, non sul fatto che esso rappresentasse il nemico numero uno della democrazia. Proporzionalismo e parlamentarismo si confermarono, in quel frangente, non scelte opportunamente attuate dai padri costituenti per affrontare le drammatiche sfide incombenti su una democrazia nuova e tutta da inventare, ma componenti costitutive di una democrazia partitica che su queste fondamenta si fondava e con esse addirittura si identificava.

Tutt’altre difficoltà si presentarono allora e si presentano ora per un'eventuale modifica del sistema istituzionale, garantito, oltre che dallo scudo costituzionale, dal valore quasi identitario che esso conserva per larga parte della nostra cultura democratica, soprattutto di sinistra.

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