Tremonti: «Fazio lasci, lo ripeto da tre anni»

A Cernobbio si sbilanciano solo Pistorio (ex Stm) e il ministro Stanca

Tremonti: «Fazio lasci, lo ripeto da tre anni»

Stefano Filippi

nostro inviato a Cernobbio

Antonio Fazio è inadeguato come governatore della Banca d’Italia. Sono tre anni che lo ripeto. Certo, fa effetto che quello che per tanto tempo dicevo da solo adesso lo dicono tutti». Giulio Tremonti è come il profeta che non grida più nel deserto. Appena approvata la riforma dell’istituto, il vicepremier lascia cadere parole pesanti. Al seminario Ambrosetti di Cernobbio rivendica la propria coerenza: «Io non ho cambiato idea, ho cambiato mestiere».Era ministro dell’Economia ai tempi delle obbligazioni argentine, dei crac Cirio e Parmalat. Ad Antonio Fazio aveva dichiarato guerra aperta, il governatore sembrò vacillare ma alla fine rimase saldo in via Nazionale mentre Tremonti lasciò il governo. «Ultimamente non gli parlavo - racconta il numero due di Forza Italia e dell’esecutivo -. Tenevo con lui rapporti cartacei e di lavoro. Se ora fossi ministro e dovessi andare a qualche vertice internazionale a fianco di un governatore “dimezzato” non avrei alcun problema». Quell’addio, però, brucia ancora: Tremonti fu immolato nella battaglia anti Fazio e sostituito al governo dal suo collaboratore più stretto. Quando un cronista gli parla di «riforma Siniscalco», corregge subito: «È una riforma voluta dal consiglio dei ministri». Ma ora che si sta prendendo le sue rivincite, adesso che Palazzo Koch avrà un governatore a termine e le attività di vigilanza sul credito e di controllo sulla concorrenza bancaria saranno ridisegnate, il vicepremier non si sente un trionfatore. Spiega che l’errore storico di Bankitalia risale agli Anni ’90, quando assunse il ruolo di difensore dell’economia nazionale nel suo complesso, non soltanto della moneta. «Prodi non disse nulla. Quelli che oggi vogliono cacciare Fazio e allora tacevano sono dei sepolcri imbiancati». Le frecciate al curaro sono per il Professore, non per il governatore. Tremonti si diverte a confutare le accuse del centrosinistra. «Temono buchi nei conti pubblici? So io come fu chiusa la legislatura nel 2001, con un deficit accertato da Eurostat del 3,1 per cento contro lo 0,8 previsto. Prodi parla di catastrofe economica? Vuol dire che è già convinto di essere al governo. Invita ad aprire i porti del Sud alle navi cinesi? Vada a farsi un giro con il suo nuovo camion giallo nel Salento, nel distretto delle calzature sprofondato in crisi, e spieghi agli artigiani che devono accogliere le merci dei concorrenti asiatici. Parla di finanza creativa? Le prime cartolarizzazioni sono del 1998». Ma l’esercizio in cui Tremonti si lancia con maggiore convinzione è la difesa del governo. Un’esibizione rara, di questi tempi, nella Casa delle libertà. Illustra il difficile contesto internazionale senza nascondersi dietro l’11 settembre («in questi quattro anni l'economia Usa è ripartita alla grande, quella europea no»), ma spiegando che i veri nodi sono stati l’euro e la Cina. «La moneta unica è stata positiva per il nostro bilancio pubblico, ma non per i privati. Le industrie sono passate di colpo da una politica di svalutazioni competitive a una fortissima rivalutazione valutaria. Le famiglie, abituate a elevati tassi d’interesse, si sono trovate con rendimenti dimezzati. La tosatura delle nuove monetine, dai resti delle edicole alle mance al bar, costa qualche euro ogni giorno. I cartellini con i doppi prezzi sono una barzelletta, ci volevano la doppia circolazione o le banconote da un euro. La Cina ci ha aggredito e l'Europa, invece di chiedere parità di trattamento sulle produzioni, ha moltiplicato le regole. Bruxelles ci vuole imporre un impossibile mondo perfetto». Se questo è lo scenario - sostiene Tremonti - il governo Berlusconi «ha il merito di aver garantito l’equilibrio sociale, di non aver ridotto il welfare, di aver assicurato la sostanziale tenuta dei conti pubblici in un’Europa in cui il 70 per cento del prodotto interno sfora il 3 per cento.

E in un sistema refrattario alle riforme, come dimostra l’immobilismo dei governi di sinistra, abbiamo fatto grandi riforme come quella delle pensioni, del mercato del lavoro, delle infrastrutture, della scuola. Molte cose non sono state fatte, governare è difficile. Ma il confronto vero va fatto con lo zero che ci ha preceduto».

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