Trent’anni in ostaggio dei pm posson bastare

Trent’anni fa, quando non eravamo neppure trentenni, abbiamo imparato a diffidare della magistratura che fa politica. I «pretori d’assalto», i «giudici democratici», la «giustizia rivoluzionaria», quella «proletaria», i «teoremi» costruiti sui ritagli di stampa, sui mitomani e sulle intercettazioni telefoniche, le «piste nere», «l’emergenza» fanno parte di un amarcord amaro che fa ancora venire i brividi.
Ci sono state vite spezzate per il pressappochismo, la (...)
(...) supponenza, la cieca determinazione con cui i membri di una corporazione trasformatasi in casta braminica, ansiosi di correre in aiuto del vincitore di turno, s’industriavano a costruire il castello del proprio potere e dell’altrui rovina.
Al termine di processi monstre, biblioteche di volumi accusatori, ragazzi di vent’anni diventati nell’attesa uomini si sono ritrovati assolti, la famiglia distrutta, il futuro già passato senza neppure aver avuto inizio.
Trent’anni dopo continuiamo a diffidare della magistratura che fa politica. E ne diffidiamo con maggior convinzione che allora. Perché nell’aberrante idea che il processo potesse essere «ideologico», che l’imputato fosse «oggettivamente» un nemico di classe o di partito c’era, per quanto bacata e malsana, l’idea di un fine superiore, la fede in un sistema di pensiero che grazie alla giustizia usata come braccio armato della politica avrebbe trionfato. La magistratura, insomma, faceva politica in nome di un’idea della politica, al servizio di una concezione politica dello Stato.
Oggi, non c’è neppure questo e da anni ormai la magistratura fa politica in proprio. Ma uno Stato in mano ai magistrati non è uno Stato più giusto: è la Repubblica delle manette, dei questurini e dei verbali.
Gli italiani accolsero come una liberazione «Mani pulite» non perché credessero nella magistratura. Al massimo avevano imparato a fidarsi di qualche magistrato che poi la casta braminica di cui sopra si sarebbe affrettata a delegittimare, fra «corvi», sospetti, mancati riconoscimenti (Do you remember Giovanni Falcone?)... E infatti pochi anni prima gli italiani avevano dato il loro sostegno a un referendum (rimasto dopo la sua approvazione lettera morta) che sanciva la responsabilità civile dei giudici, chiamati a pagare dei propri errori.
A impedire di coltivare illusioni, era sotto gli occhi lo sfascio del sistema giudiziario, la lunghezza inenarrabile dei dibattimenti, il silenzio complice e spesso l’assenso operativo rispetto al mal costume pubblico e privato, la condizione di vassallaggio nei confronti dei partiti a cui la magistratura come corporazione si era assuefatta, assicurandosi in cambio congrui benefici.
No, gli italiani hanno applaudito «Mani pulite» non perché credessero nella magistratura. Lo hanno fatto perché non ne potevano più, non ne potevamo più.
Non gli interessava, non ci interessava, chi fosse il boia incaricato di tagliare la testa a una classe dirigente che aveva tradito se stessa e chi avrebbe dovuto amministrare, inetta ma efficiente pro domo sua, vigliacca eppure tracotante, corrotta e quindi gaudente. Importava che ci fosse la legittimazione, un boia e, sperabilmente, un’élite di ricambio.
Abbiamo avuto la prima e il secondo, purtroppo c’è mancata la terza. Perché la nuova élite, e ciò che di meno peggio della vecchia era sopravvissuto al redde rationem, non ha capito, o non ha voluto capire che toccava a lei rifondare la politica, ridisegnare i confini dei poteri e la mappa delle amministrazioni, ricreare il patto di fiducia fra cittadini e istituzioni. Ha avuto paura di credere in se stessa e s’è messa a corteggiare i boia che ne avevano reso possibile la fioritura.
Il fatto è che i mestieri non si improvvisano. E se a un boia si permette di trasformarsi in uomo di governo, per tutta risposta egli taglierà la testa di chi quel permesso gliel’ha concesso: un rotolare di teste nel nome di un surrogato della politica in un Paese in cui i politici (le eccezioni, si sa, confermano la regola) hanno abdicato alla politica.


Ciò nonostante ci ostiniamo a credere (ma siamo in buona compagnia: ci confortano le legislazioni di tutte le nazioni civili) che quello giudiziario è un potere che concorre al retto funzionamento di uno Stato, ma non lo condiziona né lo paralizza, tantomeno lo guida; che va tutelato e difeso, ma a cui non sono permessi sconfinamenti di campo; sovrano nelle proprie sfere di competenza, ma alieno da ogni forma di protagonismo; teso alla ricerca della giustizia e non della pubblicità.
L’esatto contrario, insomma, di quanto è avvenuto e continua ad avvenire in Italia.

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