Tripoli promette: il 15 maggio pattuglie al via

nostro inviato a Tripoli

Suleyman adesso riposa in pace in fondo al mare, in qualche punto imprecisato sulla rotta tra Al Zuwara e Lampedusa. Suo fratello Ahmad invece riposa nel cimitero di Sidi Hamed. Lui però non è morto: lavora lì, tra le tombe, e ci dorme pure, in una capannuccia di paglia e lamiera. L’hanno assunto come custode, ma è un impiego temporaneo. «Non ho certo lasciato l’Egitto per fare il becchino in Libia. Anch’io voglio andare in Europa, ma prima devo tirare su qualche soldo».
Benvenuti a Qarqaresh, periferia ovest di Tripoli. Gomme bruciate per scaldarsi di notte, vecchi bidoni di petrolio foderati di cartone e trasformati in secchi per l’acqua da bere, carretti e bancarelle per mettere in piedi all’alba un mercato di sopravvivenza. Vendono datteri, pezzi di avorio, scarpe vecchie, qualunque cosa pur di trovare i soldi per il viaggio. Servono 1.500 euro per imbarcarsi su una carretta per la Sicilia, più i 250 già pagati ai trafficanti di uomini per attraversare il Sahara. Un capitale, per questa gente che viene dal Mali, dal Burkina Faso e da altri buchi neri del mondo e che adesso bivacca in attesa di un futuro. Stanno lì, in una rotonda sotto l’autostrada costruita dai sudcoreani. Li cacciano, ritornano, poi li rimandano via. «Cercano lavoro qui da noi», dicono i libici, ma in realtà aspettano una barca che da Al Zuwara li porti in Italia. Solo da novembre ne sarebbero arrivati più di diecimila.
Il 15 maggio scatta il pattugliamento delle coste libiche con equipaggi misti, così almeno c’è scritto nel trattato di amicizia stretto da Berlusconi e Gheddafi il 30 agosto 2008 sotto una tenda a Sirte. In attesa della data X, le maglie sono diventate larghissime. Nello scalcinato palazzo del governo, dietro il lungomare che porta ancora tracce del Ventennio, il primo ministro della Jamahiriya Bagdadi El-Mahmudi, personaggio in grande ascesa nella nomenklatura libica, offre tè verde e pasticcini e giura sul rispetto dell’intesa. «L’addestramento del personale delle navi è completato e il 15 maggio partiranno i controlli congiunti con i nostri amici italiani. L’accordo sarà applicato, non ci sono dubbi».
Si comincerà con tre motovedette e sarà quindi come raccogliere la sabbia con una forchetta. Si spera però nell’impatto psicologico del cambio di rotta di Tripoli, anche se a sentire le parole di un altro personaggio emergente, il ministro degli Esteri Moussa Kusa, c’è poco da stare allegri. «Il problema vero - spiega - dell’immigrazione clandestina sta nella difficoltà di chiudere le frontiere a sud, quattromila chilometri di deserto praticamente incontrollabili». Va avanti così, da anni, da quando il Colonnello si è accorto che dopo il terrorismo, le rodomontate, i programmi nucleari e il petrolio, disponeva di una altra arma di pressione, un rubinetto da aprire e chiudere a seconda delle esigenze del caso. E siccome adesso è il momento della concordia, ecco la stretta sull’immigrazione.
«Cane pazzo», così lo chiamava Reagan, che nell’86 gli bombardò la casa uccidendo la figlia adottiva Hana. Per Sadat il Colonnello era un «delinquente pericoloso», per Bourghiba «uno scippatore cinico». «Manca solo che lo accusino di provocare i terremoti», lo difendeva invece Andreotti. Sono passati tutti ma lui, il beduino dalle sette vite e settecento divise cucite da un sarto italiano, è rimasto lì facendo patti con chiunque, diavolo compreso. E a settembre festeggerà i quarant’anni della rivoluzione verde. Era un paria, ora è nel salotto buono. A febbraio, superando una generale storica ostilità, la Libia è stata eletta presidente dell’Unione araba. «Io sono il re dell’Africa», ha commentato durante la recente riunione a Doha. Il carattere, certo, è sempre lo stesso: nel giro di due ore ha dato del vigliacco al saudita Abdullah e ci ha fatto pace, chiudendo un lungo contenzioso.
E nel 2008, l’ingresso nel Consiglio di sicurezza ha completato la parabola del Colonnello: i tempi delle sanzioni dopo l’attentato di Lockerbie sono lontani. Non è più Satana nemmeno per gli Usa, che qualche mese fa hanno spedito in Libia la Rice e che proprio il primo aprile hanno riaperto l’ufficio visti del consolato di Tripoli. Non è più nella lista dei Paesi canaglia: non è stato il primo, nel 1994, a spiccare un mandato di cattura contro Bin Laden? E non è stato lui a far sparire centinaia di agitatori islamici?
Dunque, il nuovo Gheddafi è amico dell’Occidente e dal 30 agosto soprattutto dell’Italia. L’accordo tra Cavaliere e Colonnello ha chiuso, forse, un’infinita altalena di amore e odio. Dai centomila libici uccisi e i quarantamila deportati durante l’occupazione fascista, agli italiani espulsi in blocco nel 1970. Dalle partecipazioni nella Fiat e nell’Unicredit, alle giornate antitaliane, dai tè nel deserto con Andreotti, D’Alema e Dini, all’assalto del consolato nel 2006 a Bengasi. Ora sembra tutto alle spalle. Siamo il primo partner, il 30 per cento del petrolio che utilizziamo viene dalla Libia, cento imprese lavorano a Tripoli, tante altre cercheranno di costruire strade, porti e metrò, in un Paese ricco di soldi ma poverissimo di infrastrutture.

Sayf, il secondogenito, il delfino che fa un po’ di fronda controllata e ha fatto arrivare in edicola persino l’Herald Tribune, con sue holding è già in società con alcune nostre ditte. «Gli italiani diventeranno leader in Libia», promette El Zlitny, ministro delle Finanze. Sì, se da Al Zuwara smetteranno di partire i barconi, l’affare si farà.

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