«Troppi bonus ai vertici Sea e Atm»

Tre mesi d’oro, per Giuseppe Bonomi. Da gennaio a marzo di quest’anno, il presidente e amministratore delegato di Sea ha guadagnato qualcosa come 900 euro al giorno. Totale, 81mila euro. Indennizzo extra per «arginare la crisi Alitalia». Un extra, appunto. Perché il cda dell’azienda gli ha riconosciuto un compenso pari a 87mila e 593 euro l’anno, oltre a un emolumento di 563mila euro legato al «raggiungimento di certi obiettivi».
Da Sea ad Atm. L’azienda di trasporti pubblici ha di recente stretto la cinghia, intervenendo con una riduzione del 20 per cento delle retribuzioni dei top manager. Nonostante questo, i dirigenti non navigano in cattive acque. Il consiglio d’amministrazione della società, infatti, ha deliberato il riconoscimento al proprio presidente Elio Catania di un emolumento pari a 87mila e 528 euro, salvo poi aggiungerne altri 292mila e 418 quale ulteriore parte fissa del compenso, e ancora 100mila come parte variabile legata al conseguimento dei target operativi. Troppo, per la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Lombardia, che ha esaminato la relazione redatta dal collegio dei revisori del Comune, relativa al bilancio di previsione 2008. E che, con la delibera 220 depositata mercoledì scorso, invita Palazzo Marino a intervenire con una drastica sforbiciata sulle risorse destinate ai manager delle due aziende pubbliche. Perché, scrivono i magistrati contabili, «la determinazione dei compensi riconosciuti agli amministratori della società Atm spa e Sea spa presenta profili di criticità». Anche perché, sia Bonomi che Catania, rivestono il doppio incarico di presidente e ad. Raddoppia la poltrona, cresce la retribuzione.
Da Atm fanno sapere che «la delibera solleva un problema che riguarda il Comune più che l’azienda». E proprio per il Comune, la Corte sottolinea «l’obbligo di intervento». «I consigli di amministrazione di Atm spa e Sea spa - insistono infatti da via Marina - nell’assunzione delle loro decisioni dovevano rispettare il limite (di retribuzione, che deve corrispondere a una frazione dell’indennità del sindaco o del presidente della Provincia dell’ente di riferimento, ndr) e, comunque, avevano l’obbligo di comunicare al socio la decisione di riconoscere un ulteriore compenso all’amministratore delegato». Inoltre, «vi era e vi è tutt’ora un diritto-dovere del Comune di verificare che la decisione del Consiglio non violi la disciplina legislativa introdotta dalla legge finanziaria».
Ma «sia che via sia stata la comunicazione - si legge ancora nella delibera -, sia che l’azionista di riferimento abbia avuto comunque conoscenza di una situazione che si pone in contrasto con le disposizioni di legge», esiste «un preciso e ineludibile obbligo del Comune di attivarsi affinché il compenso degli amministratori, anche dotati di particolari deleghe, venga ricondotto all’interno della previsione legislativa, peraltro ben conosciuta dagli stessi amministratori al momento della loro nomina e che, per questa ragione, non possono vantare alcun diritto soggettivo». Insomma, la Corte intravede il rischio che «lo strumento societario» nel caso delle spa a partecipazione pubblica venga «utilizzato in modo improprio e senza alcuno specifico controllo dei costi che può generare».
Costi che «finiscono per gravare sui bilanci degli enti pubblici di riferimento, e quindi sulle risorse della collettività» aggiungono i magistrati.

La conclusione, quindi, è che «ove il consiglio d’amministrazione non si attivi per ripristinare la situazione conforme a legge, si configura una grave violazione» tale da «arrecare pregiudizio non solo alla società ma allo stesso ente di riferimento che, pertanto, dovrà attivarsi nei confronti dei componenti del consiglio d’amministrazione». Tradotto, usare la forbice sugli stipendi d’oro.

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