Lorenzo Arruga
da Torino
L'avvenimento importante di questi tempi, in teatro, è la Turandot del Teatro Regio di Torino. Non solo perché è un successo straordinario, non perché è l'apertura di una stagione intelligente, e nemmeno per l'idea, bella ma più simbolica che non esemplare, di presentare uno spettacolo senza le scenografie fastose che accompagnano di solito quest'opera e le serate d'inaugurazione. Importante perché si esce arricchiti, con la voglia di andare più a teatro e con la curiosità sacrosanta di ripensare a Puccini e a Turandot.
C'è una compagnia interessante, con una protagonista fuori dalla consuetudine, impegnata non a tuonare le belle grandi note ma a scolpire le parole in un fraseggio sensibilissimo, Luana De Vol; con una Liù che ha conquistato il pubblico per la sua determinazione fascinosa, Carmen Giannattasio, e con un principe Calaf nella persona di José Cura, che aggredisce le note senza troppi colori e con inscurimenti inutili, ma che ha nella voce e nella presenza una ben rara autorità; e con gli altri interpreti, a cominciare da Askar Abdrazakov, anche se non sempre vocalmente come vorremmo (soprattutto Ping, Pong e Pang). C'è un direttore attento ed equilibrato, Lü Jia, che supera benissimo il disagio di dover creare una Cina così diversa dalla sua. C'è soprattutto il regista Luca Ronconi.
Turandot, si sa, è l'ultima opera di Puccini, rimasta incompiuta perché la morte arrivò prima che avesse sciolto i dubbi sul finale. E' la storia, inventata dal Gozzi nel Settecento, della principessa crudele che, per vendicare lo stupro inflitto a una sua ava da uno straniero conquistatore, mette alla prova i pretendenti ponendo loro tre enigmi: sposerà chi li risolve, farà mozzar la testa a chi non ce la farà. Dopo tanti decapitati, arriva un misterioso principe da lontano, risponde giusto e poi la fa passare dalla ribellione all'amore. Opera statica e cerimoniale, invita allo spettacolone d'una Pechino fiabesca e terribile.
Ronconi fa scaturire lo spettacolo dal nudo, insuperabile fascino del palcoscenico d'opera. Ponti mobili, carrelli, elevatori, tapis-roulants. Ma non come effetti sbalorditivi, bensì come riferimenti di culto e di memoria per fissare i momenti drammaturgici. L'opera è indagata a fondo, non c'è nulla di non essenziale, i costumi stessi sono sommari, come scelti da un bagaglio utile per le prove. Ma poco a poco la radiografia dell'opera diventa un linguaggio d'immagini, meravigliose per quello che rivelano, stagliate in uno spazio vuoto senza misura. I gesti sobri disegnano ritratti: il principe assorto nel suo destino di vincitore, i tre svagati ministri stanchi del loro compito di giustizieri, la sua schiava fedele abituata alla sottomissione che insegna a tutti che cos'è l'amore, in quel mondo arido e cattivo.
E soprattutto Turandot. Ronconi vince alla grande la disagevole sfida del finale non di Puccini, dove il musicista Alfano senza volerlo trasforma il lieto fine in pagine di kitch e porta la principessa crudele dall'odio all'amore. Sulla partitura, c'è un gran bacio e la conversione arriva per vie ormonali, rapidissima.
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