La Turchia s’avvicina all’Iran non all’Europa

Il nominalismo dell’attuale percezione internazionale di ciò che è buono e giusto è davvero formidabile. Sembra un diritto umano al Consiglio d’Europa l’uso del burka, appare indispensabile ai liberal americani, compreso il presidente, costruire una moschea a Ground Zero, appare quasi irrinunciabile iscrivere all’islam moderato personaggi palesemente intenti a stabile il califfato universale, come Tarik Ramadan. Adesso è la volta di lodare il risultato del referendum turco, come destinato a condurre per mano in Europa il Paese di Kemal Atatürk, ed è infatti l’Ue la più dedita ad applaudire la vittoria. Peccato che si possa dire che il referendum appena conclusosi segna la fine del kemalismo, e dà il benvenuto istituzionale non a una Turchia più laica e democratica, ma all’erdoganismo avanzante.
Anni fa, da inviata, cercai di capire che cosa era la Turchia e se era pronta a entrare in Europa come chiedeva: incontrai la migliore borghesia turca in un lungo viaggio per il Paese, professionisti colti ed eleganti, donne raffinate. Ma una volta tornata a Istanbul nel «giorno del korban», il sacrificio di pecore agnelli e mucche nelle strade della città, trovai uno spettacolo in così estrema contrapposizione con ciò che avevo visto fino a quel giorno da sconcertarmi completamente. L’islam più antico occupava e tingeva di rosso le piazze e le moschee.
Gli articoli della Costituzione che sono stati aboliti sono quelli che consentivano al militare e al giudiziario di avere un potere inconsueto in una democrazia. Ma inconsueto era anche stato il passato dell’Impero Ottomano, straordinario il suo senso di sé, e grande la rivoluzione con cui Atatürk aveva sorretto sul filo dell’impossibile una società che aveva abolito la scrittura araba, il capo coperto, la discriminazione sessuale e il canto dei muezzin. La Turchia ce l’ha fatta a conservarsi laica e filoccidentale con uno sforzo che è stato spesso anche caratterizzato da azioni di prepotenza e da violazioni di diritti umani. È stato un male? Certamente è stata inflitta sofferenza, ma l’atteggiamento dei militari e dei giudici non è stato mosso da interessi personali, elettorali, economici. Contro il potere laico è sorto il perenne vincitore Erdogan. Non c’è dubbio che il suo cavallo di battaglia sia stato l’islam, le accuse e l’arresto dei militari, l’adozione di una politica mediorientale che lo hanno portato fino a votare contro le sanzioni all’Iran. La sua retorica anti-israeliana ha raggiunto e promosso nel Paese punte spaventevoli. Gli Stati Uniti hanno bloccato la nomina di Francis Ricciardone alla carica di ambasciatore ad Ankara perché ritenuto «troppo morbido per avere a che fare con l’attuale governo».
Capace in politica economica, la Turchia ha promosso incontri in serie e firmato accordi con i peggiori dittatori mediorientali.

Il presidente siriano Bashar Assad ha proposto proprio ieri, per festeggiare la vittoria del suo alleato, che la Turchia riprenda il suo ruolo di mediazione con Israele; il ministro degli esteri Davutoglu ha incontrato a metà luglio il leader di Hamas, Khaled Mashal; la simpatia per Ahmadinejad non è un segreto. Ed è notizia recente che l’intelligence turca e la Guardia rivoluzionaria iraniana avrebbero firmato un accordo per assistere Hezbollah nel ricevere armi.

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