Tutti i dubbi sull’omeopatia Ma la scienza l’ha già bocciata

Quest’anno che sta per chiudersi è il bicentenario della prima edizione dell’Organon dell’arte medica, l’opera capitale di Samuel Hahnemann fondatore dell’omeopatia. Allo stesso tempo, cioè quest’anno, il Comitato Scienza e Tecnologia del Parlamento inglese ha sollecitato il governo e il servizio Sanitario nazionale a cancellare ogni erogazione di fondi a favore della pratica omeopatica: «i prodotti omeopatici non sono medicine e non dovrebbero più essere autorizzati dal Mhra (l’Agenzia regolatrice inglese dei farmaci)», dice il Comitato. Non mi risulta sia accaduto nulla, come c’era da attendersi: immagino che anche il Principe Carlo non sia privo del proprio omeopata personale.
Ma, lo stesso, l’omeopatia non funziona. Semplicemente non può. È, questa, l’unica cosa certa dell’omeopatia. Comprenderne il perché, oggi, non è difficile. Proviamoci, preparando insieme una soluzione omeopatica acquosa di zucchero. Partiamo da una soluzione satura - che chiamiamo CH0 - che possiamo preparare sciogliendo 200 grammi di zucchero in un bicchiere d’acqua (più di 200 grammi non si può: se ci provate, lo zucchero in eccesso precipita come corpo di fondo). Prendete ora la centesima parte di questa soluzione, mettetela in un altro bicchiere e riempitelo con acqua pura, ottenendo così una soluzione che chiamiamo CH1. Ripetete la procedura e otterrete la soluzione CH2; ripetete e ripetete per un totale di 30 volte, quando cioè, avrete ottenuto la soluzione omeopatica CH30. Nella sigla la C indica che ogni volta avete preso la centesima parte della diluizione precedente, la H è in onore di Hahnemann e il numero rappresenta il numero di diluizioni successive che avrete operato. CH30 è una possibile diluizione dei prodotti omeopatici in commercio (ma ve ne sono anche di diluiti fino a CH100 o CH200).
Hahnemann, 200 anni fa, osservò che iniettandosi chinino (un alcaloide naturale) si provocava una febbre simile a quella malarica. Un rimedio contro la malaria è, appunto, il chinino. Su questa singola osservazione, il medico tedesco spiccò il suo volo pindarico (una legittima ipotesi di lavoro) e formulò la prima legge dell’omeopatia: il simile cura il simile. Siccome però, seguendo questo principio alla lettera le cure rischiavano esiti fatali, vi aggiunse la seconda legge, quella delle diluizioni estreme: meno si dà meglio è. E fu così che un principio attivo, responsabile di una patologia se somministrato a certe concentrazioni, diventò, se somministrato a concentrazioni estremamente diluite, un farmaco per quella stessa patologia: un farmaco omeopatico, appunto.
Tutto l’errore di chi cura e si cura con l’omeopatia sta nel credere che il farmaco omeopatico sia una soluzione estremamente diluita di un qualche principio attivo. Non è così. Torniamo alla nostra soluzione di acqua e zucchero. Il bicchiere di soluzione CH0 - quella satura - contiene, si può calcolare, 100.000 miliardi di miliardi di molecole. Il bicchiere di soluzione CH1 (ottenuto da un centesimo di CH0) contiene 1.000 miliardi di miliardi di molecole di zucchero, la CH2 ne contiene 10 miliardi di miliardi, e così via fino a che la CH10 contiene 1.000 molecole di zucchero, la CH11 ne contiene 10 e la CH12 non conterrà più alcuna molecola di zucchero, e vieppiù così è per la CH30. Continuare il processo da CH12 in poi, equivale a diluire acqua con acqua, ed è impossibile distinguere un flacone di soluzione acquosa omeopatica di zucchero da un flacone di acqua pura, esattamente come è impossibile distinguere dell’acqua benedetta prima e dopo la benedizione.
I «farmaci» omeopatici, insomma, non contengono alcun principio attivo e, quindi, non sono farmaci, come il Comitato Scienza e Tecnologia del Parlamento inglese non poteva non osservare. Ha colpe Hahnemann? Il numero di Avogadro (cioè il numero che, poco sopra, ci ha consentito di calcolare il numero di molecole nei bicchieri d’acqua zuccherina) fu scoperto 50 anni dopo che il medico tedesco pubblicò il suo trattato. A quel tempo, inoltre, prevaleva, nella scienza in generale e nella medicina in particolare, una filosofia vitalista, che attribuiva a una essenza spirituale il compito di regolare il chimismo della materia vivente: «l’energia medicale è più potente quando non trasmette nulla di materiale», scriveva Hahnemann. Si credeva, insomma, che la sintesi delle molecole organiche potesse realizzarsi solo grazie a una non meglio specificata vis vitalis, una particolarissima forza non riproducibile in laboratorio.

Un pregiudizio, questo, di cui ci si liberò solo nel 1828, quando fu possibile sintetizzare per la prima volta in laboratorio l’urea (evento che fece nascere, appunto, la chimica organica). Ha colpe, quindi, Hahnemann? Direi di no. Hahnemann, no.

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