Politica

Ultimatum di Blair, 48 ore all’Iran

Gli studenti islamici che 28 anni or sono irruppero nell’ambasciata degli Usa a Teheran e ne imprigionarono il personale avranno ormai fatto i capelli bianchi e l’ayatollah Khomeini, in nome del quale i giovanotti esaltati agivano, è morto da un pezzo. Tuttavia il fanatismo, impersonato nella nuova versione dal presidente Ahmadinejad con la sua aria da commesso di bazar, continua a ruggire da quelle parti. Pasdaràn delle ultime leve si sono dedicati al sequestro d’occidentali - i quindici militari britannici - con lo stesso zelo dei loro predecessori. Sono cambiate le motivazioni. La presa d’ostaggi nell’ambasciata, il 4 novembre 1979, fu motivata dal rifiuto americano di consegnare all’Iran il deposto Scià - in cura a New York in quanto malato di tumore - per sottoporlo a un processo: del quale non era difficile prevedere l’esito. Adesso viene rivolta agli inglesi catturati l’accusa d’avere, a fini di spionaggio, violato le acque territoriali iraniane. Contestato da Londra lo sconfinamento, grottesca l’ipotesi che esso mirasse a carpire chissà quali segreti. Ma la ragazzaglia invasata ragiona così, la logica non è il suo forte. Sa tuttavia essere ripetitiva in alcuni rituali vessatori per chi cade nelle sue mani. L’esibizione degli ostaggi, le confessioni estorte, le minacce.
Da inviato del Giornale a Teheran ho vissuto alcune fasi del lungo tormento - durò 444 giorni - degli americani dell’ambasciata. Che erano in origine 62, ma poi il barbuto e già malandatissimo Khomeini aveva ordinato il rilascio delle donne e dei dipendenti di colore, dieci persone in tutto. Quando raggiunsi l’ambasciata e fui fatto entrare, i sequestratori erano in piena euforia, in maggioranza poco più che ventenni, alcuni imberbi ma comunque muniti di pistola o di mitragliatore. Erano ubriachi di gioia per lo schiaffo inflitto allo «sporco Carter».
«Il muro di cinta e il portale - scrissi nella mia corrispondenza - erano cosparsi di cartelli con slogan: “l’Iran vince, vogliamo impiccare lo Scià”. Innumerevoli i ritratti del santone lontano e onnipotente. Un’altra immagine di Khomeini, forse tre metri di base per quattro di altezza, copriva un muro del basso fabbricato della cancelleria diplomatica. Nello spiazzo che separa i cancelli dagli uffici si aggiravano gli armigeri della rivoluzione. Oratori improvvisati scaricavano a turno dagli altoparlanti raffiche gutturali alle quali i dimostranti rispondevano in coro: “Allah-o-akbar”, Dio è grande. A un certo punto è stato portato nel cortile uno dei sequestrati, un giovanotto dai capelli rossi con gli occhi bendati. La gente rumoreggiava con urla di disprezzo... Alcuni di noi giornalisti sono stati quindi accompagnati in un locale dell’ambasciata per constatare de visu come la sede diplomatica fosse diventata una centrale di spionaggio. Iniziativa, questa del “comitato per indagare sui documenti” che gli studenti invasori hanno costituito quasi subito. I fotogrammi e le fotocopie mostrati, nel mezzo di una grande confusione, non hanno rivelato nulla di più di un normale scambio d’informazioni tra il governo di Washington e i suoi funzionari».
Ho largheggiato nella citazione perché mi pare renda il caos insieme odioso e festoso d’un atto di criminalità internazionale che gli studenti islamici avevano compiuto, e che il regime teocratico dell’Iran di Khomeini non solo tollerava ma approvava. La comunità internazionale, che s’è fissata regole precise di comportamento nei rapporti diplomatici, rimane spiazzata - e debole - di fronte a un oltraggio così patente delle regole stesse. La superpotenza americana dovette subire il ricatto di una ragazzaglia arrogante e violenta. Era ancora tempo di guerra fredda, e il Consiglio di sicurezza dell’Onu non riuscì a varare sanzioni economiche contro l’Iran perché l’Urss pose il veto (la Cina non partecipò alla riunione).
Nell’aprile del 1980 un blitz per la liberazione dei sequestrati, approvato dal presidente Carter, si risolse in un disastro: vi furono incidenti tecnici, due elicotteri entrarono in collisione durante il rientro del reparto impiegato, si contarono otto morti nel commando. Solo il 20 gennaio del 1981 gli ostaggi furono liberati. Nel frattempo erano avvenuti grandi cambiamenti sulla scena mondiale. Ronald Reagan succedeva a Carter, cominciava il conflitto tra Iran e Irak. Gli Usa erano favorevoli all’Irak di Saddam Hussein, che rischiò peraltro d’essere sconfitto dagli iraniani.

L’inutile strage finì sette anni dopo senza vinti né vincitori.
Mario Cervi

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