Umbria Jazz fa il pienone ma rischia il "già sentito"

Umbria Jazz fa il pienone ma rischia il "già sentito"

Orvieto - L’edizione invernale di Umbria Jazz, che tutti chiamano Umbria Jazz Winter oppure Ujw, ha compiuto diciott’anni. L’arrivo della maggiore età le ha fatto bene. Cinque giorni di concerti hanno fatto registrare la presenza di 9000 spettatori paganti e gli abitanti della meravigliosa città umbra sono saliti improvvisamente a 65.000. Soltanto adesso i suoi vicoli misteriosi, dove nessuno si stupirebbe di incontrare un paggio del Quattrocento, hanno ritrovato il silenzio e la pace. Ujw18 va in archivio come una delle migliori della serie, sebbene alcuni gruppi (pochi, per fortuna) abbiano dimenticato che il jazz è una musica fondata sull’improvvisazione, e quindi non può volgersi all’indietro e ripetere il già detto senza venir meno alla propria essenza.

C’è stata una rivelazione assoluta, quanto meno per i molti spettatori che non avevano la possibilità di ricordare le sue doti ammirevoli, durante l’Umbria Jazz estiva del 2009, nell’àmbito della numerosa troupe della Great Black Music Ensemble inviata a Perugia dall’Associazione per il Progresso della Musica Creativa di Chicago. Si tratta della vocalist Dee Alexander che è nello stesso tempo cantante d’avanguardia e interprete favolosa di blues, soul, gospel, rhythm’n’blues e quant’altro ancora si voglia citare. Ha voce bellissima, tecnica eccezionale, e il suo quartetto è composto da James Sanders violino, Tomeka Reid violoncello, Junius Paul contrabbasso, Ernie Adams percussione. Hanno tenuto quattro concerti con successo crescente, salutati alla fine con ovazioni da stadio. Oltre alla protagonista - una prima tra i pari che si sposta in un angolo quando suonano gli altri - fa impressione la presenza di tre archi di eccezionale livello. Sono noti i motivi storici per cui la musica afro-americana ha trascurato soprattutto il violino e più ancora il suono magico del violoncello, ma è giunto il tempo, adesso che ci sono interpreti creativi di questa caratura, di correre ai ripari.
Dal cartellone assai fitto (perfino troppo) bisogna passare al setaccio anche i numerosi artisti in residenza. Il duo pianistico ormai collaudato di Chick Corea e Stefano Bollani ha esaurito tre volte il Teatro Mancinelli. Sono due personalità molto differenti ma complementari. Corea che la lunga esperienza e un’opportuna cura dimagrante hanno reso pensoso e composto, mentre Bollani è il vulcano di idee sottolineate dall’ipercinesi che conosciamo, stanno bene insieme e possono improvvisare versioni nuove di brani fra loro diversi per forme e contenuti quali Darn That Dream, Este Sue Olhar, I Should Lose You oppure la Armando’s Rhumba che Corea ha dedicato al proprio nome di battesimo. La Pocket Brass Band di Ray Anderson, Lew Soloff, Matt Perrine, Bobby Previte e la Brass Bang (si chiama proprio così) di Paolo Fresu, Steve Bernstein, Gianluca Petrella e Oren Marshall hanno gareggiato esaltando gli strumenti a fiato (tromba, trombone, tuba, sassofono) che hanno fatto la storia del jazz. Nella chiesa sconsacrata del Carmine non è mancato l’annuale spettacolo multimediale. Questa volta è andato in scena (dal 30 dicembre al 2 gennaio) One Hand Jack, testo di Stefano Benni, interventi visivi di Massimo Achilli, voci recitanti di Elisabetta Spallaccia e Daniele Barcaroli e brani musicali esaltati dalla classe di Enzo Pietropaoli contrabbasso e Julian Pazzariello pianoforte.

Non saranno dimenticati, infine, l’affiatato trio interplay di Joe Locke vibrafono, Dado Moroni pianoforte e Rosario Giuliani sax alto; il pianoforte solitario di Danilo Rea che sa trasformare in note preziose tutti i temi che sceglie o che inventa

sul momento; e il concerto di chiusura, al Teatro Mancinelli, dei vincitori del Top 2010 della rivista mensile Musica Jazz. Sono troppi per menzionarli tutti, ma basti dire che è stata una conclusione quanto mai degna.

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