Cultura e Spettacoli

Uolter l’africano, ecco l’agiografia della Comencini

Mica come Pietro Calabrese, appena entrato nel cda della Festa, che ha una bella casa in Kenya e ogni estate, beato lui, vi si rintana per ritemprarsi. E no! Veltroni sull'Africa dolente e sfruttata ha scritto un libro, Forse Dio è malato; le pagine più commosse del Disco del mondo sul jazzista suicida Luca Flores riguardano proprio il Mozambico. Fino all'anno scorso Uolter, come lo chiama Coppola, prometteva che, una volta scaduto il mandato capitolino, sarebbe partito per l'Africa, «dove ho lasciato un pezzo di me». Evidentemente, la titanica impresa del Pd gli ha fatto cambiare idea. «Veltroni è guarito dal mal d'Africa», ha ironizzato Marini. Lerner e Fazio ci sono rimasti male. Figurarsi l'amico De Gregori, che gli aveva dedicato una canzone sotto metafora, il cui ritornello suonava: «Butta la chiave e vai in Africa, Celestino!».
In compenso approda oggi alla Festa Il nostro Rwanda, documentario di Cristina Comencini (firmato con Carlotta Cerquetti) che rievoca il viaggio colà compiuto nel novembre 2005, allorché il sindaco accompagnò a Kingali un gruppo di studenti dopo una raccolta di fondi necessari a costruire una scuola e un acquedotto. Chi ha memoria del genocidio operato dalle bande paramilitari Hutu sulla minoranza Tutsi, aprile-maggio '94, non può che rallegrarsi di come vanno oggi le cose laggiù. «Il Rwanda non è la solita Africa, secca, arida, senz'acqua», informa Jean-Léonard Touadi, spiegando che quell'odio etnico, inconsulto, fu artificiosamente alimentato dai colonialisti belgi. Sapete, la Comencini è sensibile al tema interrazziale, ha appena finito di girare la commedia Bianco e nero, il cui titolo spiega tutto. Qui adotta un registro descrittivo, provando a scansare l'incombente dimensione propagandistica. Ma Veltroni è Veltroni: anche quando è fuori scena, il «veltronismo» scappa di mano, specie nel ritrarre i liceali proiettati nel Continente nero. Basta un niente e sei dentro la retorica. Prendete il ballo al suono dei tamburi, una sorta di festa tribale e dionisiaca nella quale adolescenti bianchi e coetanei neri si lanciano in una danza sfrenata, coinvolgendo - momento stracult - pure il sindaco. Il quale, sai che originalità, un attimo prima predicava che «l'Africa non è solo vita o morte, angoscia o allegria, bensì la convivenza delle due dimensioni». E ancora, prontamente ripreso: «Ci sono tre cose da fare: cancellare il debito, smettere di vendere le armi, fare programmi sull'Aids». Ne discende che «solo chi vede l'Africa porta la ferita dell'Africa nel cuore». Ferita rimarginata, a quanto pare, essendo la destinazione non più Kingali bensì Palazzo Chigi.
Sussurra a un certo punto una ragazza, sedotta dal folclore locale, dai tessuti sgargianti, da visi sorridenti: «Abbiamo avuto una cerimonia di benvenuto degna di un re». Come non plaudire all'incontro tra vite lontane dopo aver visto, in fotografia, teste squarciate dal machete, cadaveri putrefatti, ossa accatastate? L'Occidente sarà stato pure distratto in quei mesi terribili del '94, ma ricordiamoci, messaggio rassicurante del film a parte, che l'odio etnico fu una resa dei conti tutta tra neri.

Cosa che il buonissimo Veltroni si guarderebbe bene dal dire.

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