Economia

Usa: grazie ai tassi effetto-calamita sui capitali stranieri

Protagonisti gli investitori privati: a settembre flussi in entrata per 102 miliardi di dollari. Preoccupa meno il deficit delle partite correnti grazie allo scudo fiscale

Rodolfo Parietti

da Milano

Il crescente differenziale fra i tassi americani e quelli del resto del mondo industrializzato è alla base del rafforzamento del dollaro. Ma questo non è l’unico fenomeno provocato dalla politica restrittiva adottata dalla Federal Reserve: i rendimenti garantiti dai titoli denominati in dollari stanno infatti canalizzando verso gli Stati Uniti un flusso sempre più elevato di capitali stranieri, rendendo di fatto sostenibile quel deficit delle partite correnti (una sorta di bilancia commerciale allargata) che da tempo preoccupa Alan Greenspan.
Pronti a mettere in conto una flessione dopo cinque mesi di crescita costante, gli analisti sono invece rimasti ieri spiazzati dai 101,9 miliardi di dollari di acquisti netti di asset Usa in settembre. Un dato record ancor più significativo perché - a differenza di quanto avvenuto nel 2004 e fino all’inizio di quest’anno - non è stato ottenuto dalla movimentazione dei treasuries effettuata dalle banche centrali. «E anche dai depositi delle banche caraibiche - aggiunge Antonio Cesarano, economista di Mps Finance - è possibile constatare che il ruolo degli hedge fund è stato del tutto marginale. In questo caso sono soprattutto i privati a muoversi, alla ricerca di rendimenti addizionali garantiti dal differenziale dei tassi». Su 118,1 miliardi di dollari di titoli a lungo termine acquistati in settembre, una fetta pari a 113,8 miliardi è andata proprio ai privati.
Se il livello dei tassi costituisce un’attrazione irresistibile, un altro effetto-calamita è dato dalla robusta crescita americana (3,8% nel terzo trimestre, dopo il 3,3% del periodo aprile-giugno) e da prospettive economiche in grado di far passare in secondo piano anche le performance poco esaltanti di Wall Street. Come si è visto, il ribasso di quasi il 2% dello Standard & Poor’s 500 nel mese di settembre (contro il più 7,5% del Nikkei giapponese), non ha avuto ripercussioni sui flussi di capitali in entrata.
Gli Stati Uniti sembrano dunque nella condizione di reggere il peso del disavanzo delle partite correnti, balzato nel primo semestre a quota 394 miliardi di dollari. Qualche giorno fa Greenspan aveva confermato che per ora non ci sono problemi a finanziare il deficit, ma aveva anche ricordato che quest’ultimo «non può crescere all’infinito».
Ben Bernanke, prossimo numero uno della Fed, è però tranquillo: «C’è un’enorme domanda di asset denominati in dollari - ha detto ieri -, e non mi aspetto che questa domanda possa precipitare improvvisamente».

A rassicurare Bernanke è probabilmente anche il rimpatrio di capitali da parte delle multinazionali Usa, ingolosite dallo scudo fiscale grazie al quale è possibile abbattere le tasse dal 35 al 5,25%, a patto di non impiegare questi fondi per operazioni di buy back o per distribuire dividendi. Entro la fine dell’anno, dovrebbero tornare a casa 50 miliardi di dollari.

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