La vecchia lira non cura la crisi dell’Europa

Egidio Sterpa

Tornare alla lira, davvero si può? Certo che si potrebbe, ma si dovrebbe uscire dall’Unione Europea, con danni per noi incalcolabili.
Analizziamo innanzitutto il significato del «no» francese e olandese alla Costituzione europea. Non c’è dubbio, è stata una brutta batosta. Sarà inevitabile la revisione e la riscrittura di molte regole su cui s’è retta finora l’Unione. Cominciando, si capisce, dal Trattato chiamato improvvisamente Costituzione, un documento prolisso e di difficile lettura: 400 articoli in ben 240 pagine. La Costituzione americana è fatta di sole 300 parole, quella italiana, più composita, di 24 pagine. La famosa Dichiarazione dei diritti dell’uomo riempie appena tre pagine. Dunque, una robusta e spietata sforbiciata è necessaria.
Il «no» francese e olandese ha motivi più profondi come il disamore per un’Europa senza più appeal politico, burocratizzata e munita di una moneta, l’euro, che in mancanza di efficaci contromisure, ha prodotto problemi sociali ed economici.
Anche l’allargamento dell’Unione a 25 Paesi ha agito negativamente. Qui un po’ di responsabilità ce l’ha Prodi, che ha avuto troppa fretta nel varare l’operazione estensiva, forse pensando di menarne un proficuo vanto al suo ritorno a Roma.
In Italia non ci sarà un referendum (il Trattato è stato approvato dal Parlamento), ma è un fatto che l’euro ha sfiancato il nostro europeismo. Siamo stati, fin dall’inizio, il Paese più europeista del continente, ora la nostra fiducia nell’Ue è precipitata. Se un ministro tutt’altro che demagogo come Giorgio La Malfa arriva a dire che «si rischia una rivolta contro l’Europa e l’euro», come negare una irritazione motivata e seria?
Intendiamoci, sappiamo benissimo che l’euro, agganciandosi agli altri Paesi europei, ci ha risparmiato l’inflazione e una crescita esponenziale del debito pubblico, oltre che riflessi pesanti sui conti dei cittadini. Ma è anche vero che l’introduzione dell’euro, senza adeguate misure di garanzia, ha provocato, in Italia più che altrove, effetti sociali preoccupanti. Il più grave è l’impoverimento dei ceti medi. Va detto, francamente, che a questo deleterio contraccolpo non ha posto mente a tempo debito né chi trattò l’adesione all’euro (1998), né chi ne curò la circolazione (2002).
Ci furono miopia e leggerezza. Mancò, quanto meno, capacità di decisione. Ci fu all’inizio un eccesso di retorica, l’euro venne propagandato come una grande e miracolosa ricetta finanziaria. Mancò, altroché, lucidità economica. Oltretutto, fu un errore mettere in circolazione l’euro di metallo che apparve così una misera monetina spicciola quando erano di carta persino le nostre cinquecento e mille lire. Sicché ne è venuta una ripercussione psicologica disastrosa. Il risultato, come s’è visto, è stato un euro uguale mille lire. Altre spiegazioni mi paiono superflue.
Si doveva almeno imporre l’indicazione del doppio prezzo lira-euro, come in Francia. A scontare quest’ennesimo errore sono stati i ceti medi, con effetti sociali rovinosi, che oggi pesano nel rapporto governo-governati. Tralasciamo di sottolineare i guai sopravvenuti con la diminuzione dei consumi interni a causa del crollo del potere d’acquisto delle classi meno abbienti e il calo delle nostre esportazioni. Il cambio euro-dollaro ha inorgoglito gli euroburocrati ma ha favorito i prodotti stranieri, quelli d’Oltreoceano soprattutto.
E ora? Uscire dall’euro, come qualcuno sostiene, sarebbe una follia. L’Europa viene data per morta. Sciocchezze. È tramontata, questo sì.

All’Italia si presenta una grande occasione, ora che l’asse franco-tedesco è in panne: di proporre e guidare un processo di revisione dell’Unione. Occorre incoraggiarne l’avvio, non chiedere che si indietreggi di mezzo secolo.

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