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La vera novità in Giappone è sempre Koizumi

Sembra vincente la promessa di riforme radicali ora che il premier ha «ripulito» il partito

Livio Caputo

da Tokio

A mano a mano che la campagna elettorale si avvia alla conclusione, il dominio di Junichiro Koizumi diventa sempre più evidente. Dopo quattro anni e mezzo di accorta, ma abbastanza anodina navigazione tra gli scogli delle correnti, dei potentati industriali e delle corporazioni che dominano da sempre la politica giapponese, stavolta il premier ha tirato fuori le unghie; e se i sondaggi non mentono, si avvia domani verso una netta vittoria sia sui suoi oppositori interni, sia su una opposizione che pure promette riforme più radicali.
Il fatto è che Koizumi, con il suo stile un po' populista, quasi americano, insolito per queste parti, ha rubato la scena al suo avversario Katsuye Okada al punto di dare l'impressione di essere l'unico capace di mettere in carreggiata l'azienda Giappone. Ci troviamo così di fronte al paradosso che il Partito Liberaldemocratico (Pld), quasi ininterrottamente al potere da cinquant'anni e - per il suo clientelismo e la sua corruzione - accusato di essere all'origine di tutti i mali, si è accreditato come il partito della modernizzazione, mentre il Partito Democratico, che sembrava in grande crescita soprattutto nelle aree urbane, è stato ridotto sulla difensiva. Il Pd paga sia la mancanza di carisma del suo leader, sia la scarsa coesione tra i suoi luogotenenti.
È comunque stupefacente come, con tutti i problemi che il Giappone si ritrova, Koizumi sia riuscito a focalizzare la campagna elettorale sull'unico tema della privatizzazione delle Poste, il gigante che siede su un tesoro di depositi e premi assicurativi di 2.500 miliardi di euro. Se questa privatizzazione passerà - è il suo messaggio - tutto il resto diventerà possibile, anche se è stato abbastanza avaro di particolari su quali altre innovazioni intende puntare. Con questa tattica è riuscito a far sì che altri temi cruciali su cui avrebbe potuto prestare il fianco a critiche, come la politica estera, l'immigrazione e le difficoltà del sistema sanitario, siano state praticamente escluse dal dibattito.
Sebbene tra Koizumi, sostenitore di una stretta ed esclusiva alleanza con gli Stati Uniti e di una politica di confronto con Pechino, e Okada, che vorrebbe un Giappone più equidistante tra America, Cina ed Unione Europea, ci siano notevoli differenze di approccio, quasi nessuno ne ha parlato e pochissimi hanno invocato un ritiro anticipato del corpo di spedizione in Irak. Non esiste neppure un partito «anti-Bush» come in tutti gli altri Paesi alleati di Washington. Neppure il fallimento del tentativo di Tokio di ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza, dopo dieci anni di costosissimi sforzi, ha ricevuto attenzione. A chi lo attaccava per il cattivo stato dei rapporti con la Cina, dove nei mesi scorsi si sono verificate violente dimostrazioni antigiapponesi a causa delle sue annuali visite a un sacrario in cui sono sepolti anche criminali di guerra, Koizumi ha fatto rispondere che, viste le dimensioni sempre crescenti dell'interscambio commerciale, tutto finirà con l'aggiustarsi.
I giapponesi, del resto, non sembrano sentire un gran bisogno di riconciliarsi con i loro nemici storici: non mostrano pentimento per gli orrori inflitti dall'esercito imperiale alla popolazione cinese negli anni Trenta e Quaranta, continuano a sfornare libri anticinesi in gran quantità e la loro ala nazionalista, capeggiata dal governatore di Tokyo Ichihara, è convinta che - presto piuttosto che tardi - si arriverà a uno showdown.
Neppure il delicatissimo tema dell'immigrazione ha sollevato polemiche. Esattamente come l'Europa, il Giappone sta rapidamente invecchiando e per fare funzionare la macchina è stato costretto ad aprire per la prima volta nella sua storia millenaria le porte a un numero sempre crescente di lavoratori stranieri. Se per società aperte come le nostre questo rappresenta un serio problema, per un popolo insulare ed etnicamente compatto come quello giapponese, l'invasione di filippini, thailandesi, coreani e adesso perfino cinesi è un autentico trauma. Ad aumentare la tensione c'è il fatto che nei quartieri in cui gli stranieri si sono insediati è aumentato il tasso di criminalità, che in questo Paese è sempre stato molto basso. Ma con i giovani giapponesi - che, non dimentichiamolo, hanno almeno sulla carta un reddito pro capite superiore agli europei - che rifiutano i mestieri umili, nessuno osa proporre una chiusura delle frontiere.
C'è chi sostiene che queste anomalie sono la dimostrazione che il Giappone non è una vera democrazia, nel senso occidentale della parola: se lo stesso partito, sia pure in varie «incarnazioni», governa da sempre e la parola alternanza non figura nel vocabolario, vuol dire che qualcosa non funziona nel rapporto tra il mondo politico e i cittadini. Le tante inefficienze che ritardano l'uscita da una stasi economica che dura da ormai quindici anni possono, almeno in parte, spiegarsi anche così.

Ma, come abbiamo visto, ora qualcosa di muove e il nuovo Pld che dovrebbe emergere domani sera promette di essere veramente diverso da quello vecchio.
(2-Fine)

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