Ma la vera secessione è dalle tasse

Ieri, in occasione delle celebrazioni della giornata dell'unità nazionale e delle Forze armate, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha detto: «L'unità nazionale va preservata anche in una possibile articolazione federale, dall'insidia di contrapposizioni fuorvianti e di antistorici conati di secessione». Se non fossimo stati sicuri della fonte che riportava la notizia avremmo pensato ad un discorso dei tempi d'oro di Oscar Luigi Scalfaro (contro la Lega e il centrodestra in generale, quasi e prescindere) o di quelli successivi di Carlo Azeglio Ciampi che tanto ci ha istruito sull'unità nazionale e sul valore del Risorgimento. Perché ora, un discorso così, a chi è rivolto? Al passato della Lega secessionista? A qualcuno del quale il presidente della Repubblica ha informazioni riservate e sta preparando una secessione nel segreto? Agli italiani? Se questa è l'ipotesi giusta allora vorremmo rilevare che c'è un pericolo di secessione, oggi, in Italia ma non è quello indicato dal Presidente.
Non ce n'è una di secessione in corso. Ce ne sono almeno due.
La prima è tutta politica: è quella del consenso dei cittadini italiani nei confronti del governo formalmente guidato dal professor Prodi e materialmente dalla sinistra che ieri era in piazza contro se stessa e da altri poteri di vario tipo. È una secessione crescente e che nessuno avrebbe potuto immaginare così forte dopo solo cinque mesi di governo del centrosinistra. È la secessione (anche) di coloro che avevano votato credendo che fosse vero il programma presentato e le parole dette e poi si sono trovati davanti tutt'altro. È la secessione di chi non aveva votato questo centrosinistra al governo e che sapeva della preponderanza della sinistra estrema ma non pensava che il governo avrebbe agito sotto dettatura di un sindacato anacronistico, antistorico e, soprattutto, antimoderno.
La seconda è relativa alle tasse e al senso di ingiustizia che allontana progressivamente i cittadini dallo Stato, e non solo dal governo. Fu sbeffeggiato Silvio Berlusconi quando sostenne che il senso di giustizia presente nei cittadini non può far tollerare un livello di tasse oltre un limite di decenza. Evidentemente delle due l'una: o tutti gli italiani sono dei manigoldi e dunque reagiscono negativamente per questo, oppure questa reazione diffusa, sempre più estesa a praticamente tutte le categorie produttive, e non solo, ha le radici proprio nella percezione di un profondo senso di ingiustizia da parte dei contribuenti italiani. Si sentono vessati dall'eccessivo carico fiscale crescente da parte di uno Stato che prende sempre di più e non dà il corrispondente, non onora il contratto che è alla base delle democrazie. Si sentono ingannati perché era stato loro detto che il ricorso alle tasse sarebbe stato solo eccezionale e a carico di chi può e invece è abituale, maniacale e a carico di tutti. Si sentono confusi perché il governo parla solo di alcune tasse che aumenterà tentando di nascondere nel calderone generale tutte le altre. Ha ragione l'ex ministro Antonio Martino: chi ha da fare qualcosa, qualsiasi cosa sia, è bene che la faccia subito. Potrebbe correre il rischio di pagarci qualche tassa.
Queste sono le secessioni vere. Non quella, non si sa perché, paventata dal nostro - con tutto il rispetto dovuto - presidente della Repubblica. Che poi significa la secessione dell'economia del nostro Paese da quei modelli che sono adottati nei Paesi che corrono con beneficio di tutti i loro cittadini.

Quei Paesi dove lo Stato è concepito come uno strumento al servizio della libertà dei cittadini e non come un ingordo divoratore di risorse per tenere in piedi governi dominati da una sinistra che trae la propria forza da un passato inutile e dannoso per la storia dei nostri giorni.

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