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Versace piega in tribunale i taroccatori Usa

Un commerciante di capi di vestiario d’imitazione che sfruttava il marchio è stato condannato dai giudici di Los Angeles a pagare venti milioni di dollari. Santo in aula per undici ore, tra giudici ricusati e colpi di scena. Poi la vittoria finale

Versace piega in tribunale i taroccatori Usa

Lezione di italian style in aula. Cinque ore fra i modelli, i tessuti, le fogge di uno dei marchi più famosi del mondo. L’aula di giustizia come una sartoria. Santo Versace spiega come nasce un capo d’abbigliamento e mostra una camicia, un paio di jeans, un giubbotto di pelle. Solo che ad ascoltarlo c’è il tribunale di Los Angeles: il giudice e, in un angolo, gli otto membri della giuria, tutte donne, che devono decidere su un’agguerrita causa per contraffazione della storico marchio della Medusa.

La sentenza, emessa la scorsa notte, è un inno al made in Italy e una mazzata per chi ha cercato in questi anni di imitare, in qualche modo, gli alfieri della creatività tricolore saccheggiando le loro collezioni. Il gruppo californiano nel mirino di Versace è stato condannato ad un risarcimento record di 20 milioni di dollari: «È un verdetto storico - esulta Santo Versace, presidente del gruppo - gli avvocati mi avevano invitato alla prudenza. Speravano in un verdetto positivo, ma devo dire che la giuria ha accolto in pieno le nostre istanze».

Per diciotto dei ventidue capi d’accusa il tribunale di Los Angeles ha erogato la pena massima, un milione di dollari di risarcimento, e cinquecentomila dollari per ciascuno dei restanti quattro. In totale, 20 milioni di dollari. «Una cifra - prosegue Versace - che mette in ginocchio chi per anni ci ha fatto una concorrenza sleale che più sleale non si può e ha sporcato l’immagine dell’Italia».

L’imprenditore è un fiume in piena: «Nel 2003 avevamo denunciato decine di soggetti che operavano fra la California e l’Arizona e vendevano i loro prodotti contraffatti in 72 negozi. Molti hanno smesso e hanno cercato un accordo con noi, ma questo tizio ha continuato ad inondare Los Angeles di merce di una qualità davvero scadente attraverso i suoi 19 punti vendita». Così Versace ha portato ago e filo sotto lo scranno del giudice, sistemato in alto, come in tutti i telefilm, rispetto alle postazioni dei legali, e ha cominciato la lezione rivolgendosi direttamente a Vostro Onore: «Gli ho fatto vedere i miei giubbotti e poi quelli di questa concorrenza stracciona, un orrore cui era stata appiccicata l’etichetta Versace e la Medusa, poi i miei jeans e le copie, un altro obbrobrio, e pure, per completare l’opera, una camicia a quattro colori. Alla fine ho detto al giudice e alla giuria che se quello è Versace, allora Versace fa schifo, non ha futuro, è un bluff».

Risultato: la giustizia americana s’inchina davanti al gusto e all’eleganza dei grandi stilisti italiani e colpisce chi ha cercato di imitarli goffamente e di trarre il massimo profitto infilandosi nella loro scia. Insomma, la battaglia, una battaglia di civiltà, è vinta e che non sia stato un combattimento scontato lo si capisce dai dettagli. L’avvocato del gruppo rivale ha cercato in tutti i modi con le sue domande di mettere in difficoltà Versace ma l’imprenditore calabrese ha sempre trovato una risposta convincente. Non solo: utilizzando la legge americana, garantista e insieme pragmatica, gli avversari all’inizio della causa avevano fatto estromettere uno dei giudici popolari, un’altra donna, perché avevano scoperto che aveva un debole, anzi una preferenza, per la maison milanese e indossava abitualmente i tailleur della Medusa.

Non è bastato. «La giuria - aggiunge Versace - mi ha ascoltato in silenzio, senza che uno solo degli otto giudici aprisse mai bocca, poi ha tratto le sue conclusioni. L’udienza che si è tenuta martedì - conclude l’industriale che è anche deputato del Pdl - è stata sfibrante perché si è protratta dalle 8.30 del mattino alle 19.30. Ho ammirato l’efficienza, la praticità, la forza della giustizia americana. Insomma, ho preso qualche appunto per le riforme che anche l’Italia attende. Certo, l’America rappresenta il futuro. Anche l’aula, un’aula utilizzata esclusivamente da quel giudice, era pulita e ordinata e tutti gli apparati tecnici funzionavano alla perfezione». Martedì sera è partito il conto alla rovescia, mercoledì la giuria ha consegnato il verdetto al giudice che ha interrotto un altro processo, ha richiamato le parti e ha letto la sentenza.

Una standing ovation per Versace e per il made in Italy.

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