Alexander Litvinenko («Sacha» per la comunità dei rifugiati russi a Londra) sta morendo in ospedale, avvelenato con tallio radioattivo, una specialità dei servizi segreti sovietici ai tempi del Kgb, non abbandonata dai suoi successori. Litvinenko è stato per tre anni un mio informatore personale e riservato durante i lavori della Commissione Mitrokhin, e i miei contatti con lui sono sempre avvenuti attraverso il professor Mario Scaramella, consulente ufficiale della Commissione d’inchiesta parlamentare. Per un caso diabolico, Litvinenko ha compreso di essere stato avvelenato proprio dopo aver incontrato Scaramella in un «Sushi bar» di Londra, sicché l’ex tenente colonnello in un primo momento ha concluso, nella disperazione e nella pena, che il suo vecchio amico avesse cercato di ucciderlo.
Vladimir Bukowski, il leader dei russi in esilio a Londra, mi ha detto al telefono: «Avevo raccomandato a Sacha di non esprimere giudizi affrettati, ma il panico gli ha fatto perdere il controllo. Comunque alle autorità britanniche non è mai saltato per la mente di accusare Mario Scaramella». Anche Oleg Gordievski, il leggendario agente del Kgb passato poi agli inglesi e che gestiva lo stesso Vasilij Mitrokhin, ha totalmente sgomberato il campo da qualsiasi ipotesi di accusa nei confronti del consulente. Frattanto Scotland Yard e le autorità di intelligence del Regno Unito hanno già provato che la tossina velenosa era stata somministrata a Litvinenko attraverso una tazza di tè, qualche ora prima dell’incontro con Scaramella al «Sushi Bar». In altre parole, non esiste e non è mai esistito un caso Scaramella, mentre esiste un caso Litvinenko: chi è che lo vuole morto? A questa domanda è difficile rispondere senza guardare con sospetto agli attuali servizi russi, successori del Kgb da cui hanno ereditato uomini e metodi, salvo un cambio di sigle.
Dal mio punto di vista Litvinenko ha riferito fra le altre molte sue valutazioni sul conto di Romano Prodi, secondo cui, quando lasciò la Russia nel 2000, era sempre stato considerato, sia in Unione Sovietica che in Russia, «il nostro uomo in Italia e in Europa». Queste valutazioni gli venivano dal suo superiore diretto, il generale Anatoly Trofimov.
Litvinenko è stato vice capo del Dipartimento del Fsb (una delle due nuove sigle del vecchio Kgb) e si occupava personalmente della «liquidazione fisica delle persone indesiderate». Poi cercò di sottrarsi alla macchina infernale dei servizi ed entrò in conflitto con gli apparati che fanno capo al presidente Putin. Trofimov seguitava a fargli pervenire le sue valutazioni e fra queste quella che Litvinenko riferì il 13 gennaio 2004 quando dichiarò di aver saputo dalla solita fonte che Romano Prodi, Presidente dell’Unione Europea, avrebbe avuto «relazioni molto segrete con le strutture dell’ex Kgb», cosa per me non del tutto nuova, considerato che durante i lavori della Commissione Mitrokhin avevo già scoperto che la sede sovietica della società Nomisma a Mosca era in joint-venture con l’«Istituto Plehanov». E che questo istituto altro non era che il nome di copertura della sezione economica del Kgb. Secondo le notizie raccolte da Litvinenko i rapporti fra Prodi e le autorità sovietiche erano nati intorno al 1978 e poi si erano sviluppati con grande ampiezza e in molti campi, funzionando come una continua promozione politica, sociale ed economica.
Litvinenko fuggendo a Londra aveva dunque lasciato in patria due fonti a lui preziose: il già citato generale di Corpo d’Armata Anatoly V. Trofimov, vice direttore del Fsb e la giornalista Anna Politkovskaia. Entrambi sono stati assassinati nel corso di diciotto mesi. Lo stesso Litvinenko è diventato l’ultimo nome della lista degli assassinati eccellenti, anche se esistono ancora pallide probabilità che possa salvarsi. Sta di fatto comunque che Anna Politkovskaia usava Litvinenko come sua fonte, così come facevo io e dunque disponevamo spesso della stessa famiglia di informazioni. Ora anche Litvinenko è stato colpito e la famiglia delle fonti si sta estinguendo nel sangue e nel dolore.
Giova ricordare che il generale Trofimov caldamente scoraggiò Litvinenko dal cercare asilo in Italia dicendogli che «l’Italia è un covo di ex collaboratori del Kgb» ed è in Italia che si trova «il nostro uomo». Ma che le informazioni di Litvinenko fossero sempre impeccabili, e sempre trasmesse attraverso il mio collaboratore Scaramella, è confermato da ogni verifica possibile. Un anno fa, anche grazie alle informazioni di «Sacha» Litvinenko, fu bloccato a Teramo un pulmino con sei giovanotti ucraini che trasportavano, fra masserizie e generi di conforto, due grosse Bibbie scavate per alloggiare due granate destinate ad un tiratore scelto dell’area ex sovietica, presumibilmente a Napoli.
Ciascuna di quelle granate era in grado di far saltare un carro o una macchina blindata. Ho appreso al processo, dove sono stato chiamato a testimoniare, che i probabili destinatari delle granate eravamo io e Mario Scaramella. Di fronte ai giudici, proprio il giorno dopo l’assassinio della Politkovskaia, ho potuto dar conto del prezioso ruolo di «Sacha» in questa e altre operazioni. In seguito al ritrovamento delle granate, il livello di protezione che lo Stato mi ha assegnato è salito dal primo al secondo livello, che condivido con l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede.
Quando Anatoly Trofimov, lo sponsor di Litvinenko, fu barbaramente trucidato insieme alla moglie l’11 aprile del 2005, venne diffusa ad arte la voce secondo cui il generale sarebbe stato eliminato da un complotto di uomini d’affari malavitosi. Da Londra Litvinenko commentò: «Ma non diciamo sciocchezze: oggi nessun malavitoso uomo d’affari si azzarderebbe in Russia ad alzare le mani contro un generale del Fsb. Questo è un tipico omicidio politico». Sei mesi dopo l’assassinio di Trofimov e di sua moglie, Litvinenko dichiarò di aver avuto dal suo ex comandante una ulteriore quantità di valutazioni sul conto di Romano Prodi. Io stesso, come Presidente della Commissione Mitrokhin, ho preferito mantenere riservate queste accuse per non alimentare speculazioni dal momento che mancavano di riscontro.
La tecnica dell’avvelenamento è una firma del Kgb e successori. Pochi anni fa, una compagnia di Mosca, la Bioeffekt Ltd., ha addirittura fatto circolare un dépliant pubblicitario in cui proponeva la vendita per posta di tre ceppi di tularemia, una malattia debilitante, modificati geneticamente. Secondo il presidente della compagnia, Nikolai Kislichkin, i ceppi contenevano geni che aumentavano la virulenza della tularemia e della melioidosi, ed erano prodotti da «tecnologia sconosciuta fuori dalla Russia». Naturalmente, il presidente della Bioeffekt sosteneva nel dépliant che questo materiale era utile per la creazione di vaccini, ma, secondo Alibek, non poteva non essere perfettamente consapevole del possibile impiego per fini bellici di simili campioni, dal momento che Kislichkin era uno scienziato del complesso biomilitare di Obolensk. Alibek ha raccontato di uno dei principali ricercatori biomilitari sovietici ridotto a vendere fiori sul marciapiede dell’Arbat, a Mosca, per nutrire la sua famiglia.
Il Kgb aveva un suo programma biologico, chiamato Fleyta («flauto»), per lo sviluppo di agenti psicotropi capaci di alterare il comportamento e di tossine paralizzanti o letali, da impiegare in operazioni speciali o di assassinio politico. Queste sostanze venivano sviluppate in diversi istituti, fra cui il Laboratorio 12, a Yasenovo, nei locali del primo direttorato del Kgb, responsabile dello spionaggio all’estero. Il Laboratorio 12 venne creato negli anni ’20 da Genrich Yagoda, l’ex farmacista diventato poi capo della polizia segreta di Stalin. In quei locali venivano sviluppati agenti tossici letali, da usare per l’assassinio politico: negli anni ’40 venne ideata una forma polverizzata di peste da impiegare contro Tito dopo lo strappo con Mosca, e dal Laboratorio 12 uscì il veleno che, secondo recenti studi, causò la morte di Gorki.
Nel settembre del 1978, il dissidente bulgaro Georgy Markov venne ucciso a Londra da un graffio causato da un ombrello avvelenato al ricino. Fu Yuri Andropov, allora capo del Kgb, a fornire a Sofia la tossina, prodotta nel Laboratorio 12. Alibek racconta che, nel 1990, un suo amico del Kgb, Valery Butuzov, gli chiese quale agente tossico avrebbe impiegato per un aerosol nascosto in un pacchetto di sigarette, destinato a uccidere una persona in una stanza. Butuzov disse che aveva pensato all’Ebola e, davanti all’obiezione di Alibek secondo cui sarebbero morte tutte le persone presenti nella stanza, rispose che «questo non importa».
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