«Vi racconto la mia guerra per sconfiggere i jihadisti»

Lorenzo è un veterano: «Eliminato il Califfato, l'Occidente ci abbandona agli attacchi turchi»

Fausto Biloslavo

«I proiettili fischiano dappertutto. Ci scaricano addosso un inferno di razzi Rpg e missili anticarro telecomandati. La postazione vicina cade subito, ma noi continuiamo a resistere e sparare», racconta Lorenzo al telefono con il Giornale dal Nord Est della Siria. Nome di battaglia Tekoser, «lottatore», è uno dei volontari italiani che combatte al fianco dei curdi per snidare i miliziani dello Stato islamico nell'ultima sacca fra la riva sinistra dell'Eufrate e l'Iraq. Una ventina di chilometri quadrati tenuti con le unghie e con i denti da 2-2mila irriducibili del Califfato, soprattutto mujaheddin stranieri, che non hanno nulla da perdere. Mercoledì il presidente americano, Donald Trump, ha proclamato la vittoria contro l'Isis in Siria. In novembre Lorenzo ha vissuto la terribile battaglia di Hajin, una degli ultimi villaggi roccheforti dello Stato islamico. Il 14 dicembre è stato espugnato dalle Forze democratiche siriane, a maggioranza curda, con l'appoggio della coalizione alleata.

«Non dimenticherò i loro blindati sempre più vicini, che stanno per circondarci. Quando le munizioni hanno cominciato a scarseggiare siamo stati costretti a ritirarci», racconta il volontario con accento toscano. Altri combattenti curdi dietro muretti di sabbia in mezzo a un terreno brullo non hanno via di scampo. «Una dozzina di uomini, tutti massacrati e decapitati dall'Isis. Poi hanno piantato le loro teste attorno alla postazione filmando la scena», spiega l'italiano soprannominato Orso. «Per questo teniamo sempre in tasca tre proiettili: due per i compagni al tuo fianco e l'ultimo per te stesso. Vivo non mi faccio prendere», afferma Lorenzo.

Nell'operazione «tempesta» per ripulire l'ultima sacca jihadista sono stati lanciati anche 60 raid aerei alleati al giorno. «Gli americani non si sono fatti vedere finché non siamo stati travolti da un contrattacco di Daesh. Poi sono spuntati con artiglieria e una ventina di blindati come se fossero la cavalleria, ma intanto la carne da cannone siamo noi», sbotta il volontario italiano. «Durante uno degli scontri più duri ne vedo tanti cadere fra le fila di Daesh (Stato islamico nda). Sembra che siano allo sbando e alcuni dei nostri scavalcano le barricate per rincorrerli ed esultare. Grave errore», ricorda Orso.

Il primo combattente curdo viene colpito subito. Un altro cerca disperatamente di portare via il compagno caduto. «Gli urliamo di tornare indietro subito, ma è inutile. Poco dopo lo centrano in pieno volto. Mi offro volontario per recuperare i cadaveri a bordo di un mezzo protetto. I proiettili si infrangono sul parabrezza. Scatto fuori e carico i corpi nel bagagliaio. Continuano a spararci addosso, ma in 30 secondi siamo in salvo. I compagni pensavano che fossimo morti», spiega l'italiano di Firenze.

Una notte di ennesima battaglia, l'unità di Lorenzo cattura un ragazzino di 14 anni, che sta piazzando delle mine attorno alla postazione curda. «È il figlio di un Amir, un comandante di Daesh. Ci racconta che a Hajin non hanno più cibo e sono costretti a mangiare topi e serpenti. Armi e munizioni turche, però non mancano», sottolinea Lorenzo. I miliziani dello Stato islamico propongono di liberare dei prigionieri in cambio di un camion di viveri. Gli altri preferiscono passarli per le armi. Negli ultimi due mesi, come la sacca si restringe i tagliagole islamici massacrano circa 700 prigionieri.

In prima linea il reparto di Lorenzo interroga in inglese e francese due jihadisti stranieri, un tunisino e un uzbeko, catturati dai curdi (vedi video sul sito del Giornale). Il 24 novembre viene fatto prigioniero Osama Awaid Al-Ibrahim, nome di battaglia Abu Zeid, con 20 cellulari, lingotti d'oro e ingenti somme di denaro. L'ex ufficiale dell'esercito siriano è oggi considerato il numero due dello Stato islamico. Al fronte circola la voce che pure il Califfo, Abu Bakr al Baghdadi, sia nascosto in uno dei quattro villaggi ancora in mano agli irriducibili.

«Pensate di riuscire a sconfiggere il Califfato? È una guerra d'attrito. Quando la coalizione non bombarda più noi rispuntiamo. Siamo ancora in aree della Siria dove siete convinti di averci debellato. E abbiamo pronti tanti kamikaze», minaccia via whatsapp con il New York Times, Yehya, uno dei seguaci della guerra santa che non demorde.

«L'aspetto paradossale è che il mondo sembra essersi dimenticato della minaccia delle bandiere nere - fa notare Lorenzo - La gente pensa che sia tutto finito. E torna a preoccuparsi per un po' solo quando colpiscono in città europee come Strasburgo. Anche se sconfiggiamo Daesh sul campo, la loro folle ideologia si è radicata non solo nel Medio Oriente. Per questo continuiamo a combatterli».

Lo scorso anno i curdi hanno versato il loro sangue per espugnare Raqqa anche per noi, ma la Casa Bianca vuole ritirare i 2mila marines nel Nord Est della Siria abbandonando gli alleati locali al loro destino. La fetta di territorio al confine con la Turchia, è in mano al Ypg, le Forze di protezione popolari. Ankara li bolla come terroristi e preferisce coccolare le fazioni jihadiste sconfitte da Damasco. Il presidente turco Erdogan ha annunciato una grande offensiva contro i curdi a Est dell'Eufrate. Ventiquattromila uomini, al comando del generale Ismail Metin Temel, sono pronti ad attaccare. I primi a venire spazzati via saranno i curdi di Manbij, un avamposto tenuto anche dai corpi speciali americani non lontano dalla città martire di Kobane.

Il generala Temel ha già conquistato in gennaio l'enclave di Afrin facendo terra bruciata. «Ad Afrin sembrava il Vietnam. Ci è arrivata addosso una valanga di fuoco. Un ragazzo curdo mi è morto fra le braccia.

Sono vivo per miracolo», ricorda Lorenzo, il veterano italiano. E aggiunge: «Quando i turchi attaccheranno, gli occidentali, dopo che abbiamo combattuto anche per loro contro i terroristi di Daesh, ci abbandoneranno di nuovo».

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