Violenze sul web, Google rischia la condanna

MilanoIl tema è di quelli che fanno giurisprudenza. Fino a che punto il web è responsabile dei contenuti che veicola? È la domanda che emerge nel processo che a Milano vede come imputati quattro dirigenti di Google, il più grande motore di ricerca del mondo. In aula, quattro dirigenti del comparto italiano, accusati a vario titolo di diffamazione e violazione della privacy per un video diffuso in rete il l8 settembre del 2006, in cui un ragazzo disabile veniva maltrattato dai suoi compagni di classe in una scuola di Torino. Tutto ripreso con un cellulare e lanciato nel cyberspazio, ad uso e consumo degli internauti più cinici. Ieri, per i quattro manager, i pm Alfredo Robledo e Francesco Caiani hanno chiesto condanne tra i sei mesi e un anno. È la prima volta che un tribunale affronta il tema. E la posta, spiegano i Pm nel corso della requisitoria, non è «la libertà della rete». Piuttosto, l’accusa si domanda «se esista una zona franca di non applicabilità di alcune leggi dello Stato e, in particolare, della normativa a protezione dei dati personali». Perché «la tutela dei diritti fondamentali non può essere calpestata sulla base soltanto del diritto d’impresa».
È un duro attacco, quello della Procura. «Sarebbe bastato davvero poco - osservano i Pm - per offrire un servizio responsabile e con l’osservanza delle leggi vigenti», ed evitare che quel filmato rimanesse «per quasi due mesi, fino al 7 novembre 2006, nella categoria dei “video più divertenti”, arrivando al 29esimo posto di quelli più visti (venne cliccato 5.500 volte, ndr) prima di essere rimosso». Per i Pm, la logica è una sola. Il business. «I filtri - insistono i due magistrati - Google li mette solo se vi è spazio di guadagno», mentre il lancio di «Google video» in Italia, non avendo «l’opportunità di essere leader del mercato italiano dei video on line», trova la sua «possibilità di successo» nel lancio di «una piattaforma video di libero accesso e in grado di massimizzare la sua potenzialità diffusiva, anche tramite la trasmissione di video ripresi con i cellulari». Insomma, materiale al di fuori di ogni controllo. Altra stoccata. «I controlli, anche per “Google video”, potevano essere ragionevolmente e responsabilmente fatti». Come avvenne per il lancio del prodotto in Cina, dove la società «ha accettato di aprire un motore di ricerca censurato per l’utenza cinese. Che è un po’ come dire che si è contrari alla pena di morte, ma sul taglio della mano è invece possibile accordarsi».
Il colosso del web, però, replica che il video incriminato è stato cancellato dalla rete quanto prima. Non abbastanza, secondo l’accusa. E non per ragioni di responsabilità. «Il video non è stato rimosso per effetto del normale funzionamento dal sistema di controllo - è l’affondo dell’accusa - ma esclusivamente per le pressioni ricevute dall’Italia. Ci volle una campagna mediatica ad opera di un blog, l’intervento di una senatrice e quello del capo della polizia postale italiana per riuscire nell’intento».
«L’azione di Google - replica l’avvocato Giuliano Pisapia, uno dei legali della società - è stata pienamente legittima in base al diritto italiano. La requisitoria è pervenuta a conclusioni giuridiche del tutto infondate». Per questo, dopo la valutazione del giudice, «emergerà l’insussistenza del reato».

Il Comune di Milano, parte civile nel processo, ha chiesto un risarcimento di 300mila euro. A gennaio, infine, arriverà la sentenza. Nel frattempo, Google incassa l’archiviazione di un’altra inchiesta, aperta nel 2007 dal pm Carlo Nocerino su un’ipotesi di evasione fiscale a carico di due manager del gruppo.

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