Visita a New York tra caos e nervi tesi: annullata anche la conferenza stampa

Appuntamento con i giornalisti prima rinviato e poi cancellato. Passeggiata a uso delle telecamere. L’ironia di D’Alema

Gianni Pennacchi

nostro inviato a New York

Va bene che il viaggio dalla Cina a New York è di quelli che fan stramazzare anche i tori, va bene che gli esami non finiscono mai e ieri da Roma s'accavallavano le docce gelate, ma basta così poco per mandare in tilt il premier e l'intera squadra di Palazzo Chigi? Questa è la cronaca della convulsa mattinata di ieri, all'ombra del Millennium, aspettando che Romano Prodi in transito per il Palazzo di Vetro commenti quanto rimbalza da Roma. Un rigo, una frase appena...
Giunge prima e rassicurante la parola di Silvio Sircana, che garantisce un improvvisato «punto stampa» proprio lì al Millennium, in una saletta dell'hotel. Contrordine: dalla sede della nostra ambasciata all'Onu che sta nella porta girevole accanto, e dove Massimo D'Alema ha appena terminato la sua conferenza stampa, scende un funzionario ad avvertire il bivacco mediatico che Prodi «parlerà certamente con voi», ma l'appuntamento è alla palla di bronzo di Pomodoro che sta nei giardini delle Nazioni Unite, «alle 11,45». Nuova variazione: arriva il solerte Rodolfo Brancoli e rassicura che «appena scende dalla camera, vi parlerà qui, prima di andare al Palazzo di Vetro». Giunge un altro della squadra, e annulla sia l'atrio che l'appuntamento alla palla di bronzo. Un marasma totale, in quell’atrio d'albergo per vip e potenti del mondo, dove s'è levata però la voce di Angelo Rovati, che con tono non si sa se da mammoletta o da veterano di troppe congiure, ha trovato modo di informare che «appena saranno divenute esecutive le mie dimissioni, spiegherò il mio punto di vista senza vincolo, se mi sarà concesso». Chi gli deve dare il permesso per parlare? E non s'è già dimesso? Mistero, però Rovati sussurra ancora: «C'è stata una strumentalizzazione della vicenda...».
Tant'è che è finita nella passeggiata allucinante e stralunata dal Millennium verso il Palazzo di Vetro, Prodi e D'Alema ad ostentare un cordiale parlottio per telecamere e cronisti che li inseguivano o li precedevano: il premier eccessivamente cordiale e il vicepremier che annuiva con fare altezzoso, quasi renitente. Ogni domanda su Telecom, le forche caudine imposte dal Parlamento, seppur gridata e reiterata rimbalzava come su gomma; qualunque tema, persino Ahmadinejad, incuteva timore e dunque accuratamente ignorato. Fosse stato Silvio Berlusconi - anche a lui cadevano spesso grandinate da Roma quando era all’estero - avrebbe affrontato sfrontatamente microfoni e taccuini minimizzando con gran sorrisi gli echi delle beghe giunti dal cortile nostrano ed esaltando con un fiume inarrestabile di parole l'immenso contributo alla pace mondiale che stava dando, hic et nunc, insieme agli amici George e Vladimir. Prodi invece, niente. L'abile giornalista del Tg5 ha colto D'Alema che diceva al premier, «io no, a questo modo proprio non lo avrei fatto», ma va a sapere a che si riferiva. Comunque una lezione al Prof.

E quando la cronista d'assalto del Tg3 s'è fatta largo sgomitando tra le guardie del corpo ed ha urlato «presidente!», Prodi non s'è nemmeno voltato. S’è girato però D'Alema, che con ghigno sornione ha risposto: «Non è me che volete, immagino».

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