Quella vita fra le viuzze teatro di santi e comari

Saliscendi e chiese, scenografia perfetta di una popolazione portata a recitare nelle processioni, nei negozi e nei comizi

Quella vita fra le viuzze teatro di santi e comari

La stessa planimetria urbana, così mossa e pittoresca nel suo intreccio di saliscendi e gradoni, appare come uno scenario già disposto, offerto alle sorprese e alle peripezie dello spettacolo. Strade come quella di San Leonardo, prigioniera fra due siepi di ballatoi giganteschi; viuzze come le tante che riversano i loro ruscelli di scale fin sul corso della Grazia; slarghi e sagrati dall'avventuroso profilo, come quelli delle due chiese nemiche, del Municipio, del Mercato; vie e piazze tutte sembrano proporsi come fondali e quinte ideali per i quotidiani mimiambi della vita cittadina.

Qui, infatti, ogni persona tende senza sforzo a diventare personaggio; ogni gesto si accalora e si illumina di enfatico fuoco. Recita il venditore all'aperto quando decanta la propria merce e provoca con improperi e strambotti il cliente; recita il bevitore impegnato a un tavolo d'osteria nell'antico gioco del «tocco», dove beve solo chi vince, chi alterna meglio la parata e l'affondo nella prevista scherma di motti, promesse, ipotesi, scherni, declamazioni. E non somiglia a un duetto drammatico quello che si dibatte ogni mattina, fra la comare e l'ambulante, mentre entrambi tirano, da una parte e dall'altra, sul prezzo? E il sensale che sollecita, implora, s'inginocchia, bestemmia, afferra per il braccio ora l'uno ora l'altro dei due recalcitranti non sembra seguire un vetusto, ma sempre divertente copione? E il mendicante? E l'innamorato? Tanto più evidente risulta questa vocazione alla pantomima nelle occasioni più intense della vita cittadina: le feste religiose e le sfide elettorali.

Come altrove, vige a Comiso una secolare e memorabile guerra di santi, regolata da canoni e ricorrenze che è proibito tradire. Si veda, per esempio, a Pasqua, l'epico momento della processione detto «a paci», quando i due simulacri del Cristo e della Madonna, fra le acclamazioni dei devoti e il commento furioso delle bande musicali, si vengono incontro a precipizio, come a voler mimare un rinovellato patto d'amore e di pace fra il Figlio risorto e la Madre esultante. Di queste «paci», rappresentate a più riprese nel corso della Domenica, la più saporita è naturalmente quella che, a sfida, i Nunziatari effettuano proprio di fronte alla Basilica rivale della Matrice, in un sinuoso e angusto serpente di strade, che dai tempi della guerra libica ha preso il nome di Stretto dei Dardanelli.

Altri atti e consuetudini di festa, dimenticate le originarie motivazioni della pietà religiosa, sopravvivono per fornire materia di orali, e talora manuali, diverbi fra i tifosi dell'uno e dell'altro partito. Ma il culmine e il fragoroso climax dello scontro si ha la sera, nell'ora dei fuochi d'artificio, quando dopo ogni boato di moschetteria risuona, rivolto all'avversario intontito, il grido provvisoriamente trionfale: «Va falla»! («va' a farne un'altra uguale»; di feste, cioè).

Attrice e utente insieme, la popolazione è in queste circostanze così tirannicamente coinvolta nella liturgia dello spettacolo da ricordare talune odiernissime modalità del teatro spontaneo, rivolte, appunto, a frantumare ogni diaframma fra scena e platea. La festa diventa così un enorme e collettivo happening mimico e gestuale, straripante di colori, odori, sapori, rumori, rossori, occhiate di fuoco, strilli di neonati, balconi infiorati, fulgori di minigonne... Non altrimenti le lotte politiche, pur nella gravità e nel confronto appassionato delle ragioni, non si sottraggono a una tentazione di giostra e di gioco. Quindi ogni comizio finisce con l'essere giudicato dagli intenditori come un minuscolo assolo, durante il quale il vecchio o inedito oratore si esibisce sul podio come un tenore verdiano davanti ai loggionisti di Parma. E le scadenze del voto diventano occasioni di battibecchi rimati e seminano i selciati di foglietti multicolori, la cui innocente ferocia si dimentica.

Accompagnata e scandita da questi anniversari, la nostra vita trascorre così secondo una immutabile coreografia di caldi e di geli, di sabati «allegracuore» e di domeniche tristi. Ci venga dunque a trovare di sabato il turista continentale. E scelga di giungere da oriente, da Ragusa, se vuole ammirare, discendendo giù per gli Iblei, di tornante in tornante, un paesaggio di rara beltà, col mare di Gela in vista laggiù, e mezza Sicilia orientale ai piedi, a perdita d'occhio, verde e bruna, sotto un tenerissimo cielo. Venga a guardarsi le due chiese grandi e le venti minori, i vecchi quartieri che resistono alla prepotenza del nuovo, le reliquie greche e romane, le tante bocche della fonte Diana che nel cuore stesso della città ripullula ogni mattina a testimoniare con la perenne giovinezza dell'acqua la fedeltà d'un amore alla vita e alla luce.

Ce n'è bisogno. Perché le immagini di morte qui premono dappertutto: dal monumento funebre del conte Naselli, nella chiesa dell'Immacolata, al gran mausoleo neoclassico dei FerreriPassanitello, nella chiesa Madre; dalla cripta dei cappuccini, su a Monserrato, dove diecine di scheletri ripetono nelle loro nicchie la lezione monotona della polvere, alla cerchia reticolata dell'aeroporto Magliocco, già luogo di spaventi durante l'ultima guerra e avviato oggi a concedere sinistramente la replica.

Non pensiamoci: è possibile, è probabile che i potenti rinsaviscano e Comiso torni

domani da Cruisetown a chiamarsi Comiso: un paese di sangue dolce, di umori fantastici, di lune, di serenate; dove «mafioso» vuol dire «sgargiante, superbo, leggiadro» e si dice di una ragazza...

«Qui Touring», marzo 1984

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