VOGLIA DI BIPOLARISMO

SALVATORE SCARPINO Pare dunque obbligatorio, di questi tempi calamitosi, parlar male del bipolarismo italiano e profetizzarne la fine imminente, per implosione o per esplosione. È «imperfetto», si sente dire, anzi è sgangherato, e si insiste su una sorta di rigetto cui la democrazia italiana sarebbe geneticamente condannata nei confronti di taluni meccanismi istituzionali che favoriscono chiarezza di posizioni, rapidità di scelta, stabilità di governi.
In fondo, non siamo mica inglesi, forse c’è la maledizione del politico «mal latino», che ci inchioderebbe ai bizantinismi della prima Repubblica, ai virtuosismi impotenti delle tregue, dei preamboli e dei governi nani, «ponte» o «balneari». A rischio di apparire ingenuamente ottimisti, è il caso forse di guardare al bipolarismo italiano come a certi malati cronici perennemente «in declino» e irrimediabilmente pallidi che raggiungono i cent’anni partecipando ai funerali di tutti i loro medici. Si ha netta l’impressione che indietro non si voglia tornare e non si tornerà. Nel ceto politico si notano passatisti irriducibili e taluni rumorosi democristiani inguaribili, ma l’elettorato si è abituato alla chiarezza del nuovo meccanismo, ha anche imparato a lanciar messaggi minacciosi al governo in carica usando le votazioni amministrative che hanno il valore di «tagliando» di medio termine. Il merito storico di questa evoluzione del sistema spetta alla svolta del ’94, alla prima vittoria di Berlusconi e del centrodestra. Quella prima maggioranza ha affrontato ribaltone e scossoni, ma poiché le ragioni dell’alleanza erano solide e percepibili ha potuto rinnovarsi. E su quello schieramento si è ritrovata nel 2001 la complessa realtà dei moderati, maggioranza del Paese. Nessuna coalizione, in nessun Paese, è immune da tensioni, confronti interni anche aspri, personalismi e contenziosi legati ai meccanismi decisionali, ma troppo presto osservatori interessati hanno annunciato separazioni e divorzi nella Casa delle libertà. Il centrodestra ha articolazioni territoriali ed elettorali diverse, ma non è esploso, né esploderà. Rilancia, anzi. Il progetto del «partito unitario» tratteggiato dall’attuale premier è all’ordine del giorno, se ne discute come di un obiettivo possibile. Silvio Berlusconi avverte il peso della primogenitura nella trasformazione della società italiana. Nel ’94 chiamò a raccolta i moderati, oggi ne interpreta i desideri di trasparenza e di libertà chiamandoli a una «costituente» che dovrà segnare l’avvio di un nuovo rapporto fra eletti ed elettori. Il risultato non sarà il «partito unico» del Novecento totalitario, non ci saranno sant’uffizi e «commissioni di disciplina». Il partito di maggioranza dei moderati c’è già, s’è mostrato anche al referendum.
Con questo progetto il centrodestra condiziona anche l’opposizione che vorrebbe l’unione, la federazione, la lista unica, il superpartito ed è costretta ad accontentarsi di un instabile accordo fra separati in casa. È curioso, ma l’apprezzamento per il bipolarismo viene anche dal centrosinistra, sebbene sia incapace di realizzarlo per la parte che ad esso compete. Prodi sogna il partito unico, ma non può averlo. Le difficoltà del centrosinistra non possono portare acqua al mulino degli anti-bipolaristi. Nel caso specifico le difficoltà della coalizione non nascono da qualità o difetti del sistema, ovvero del contenitore, ma dalla strutturale incompatibilità dei contenuti.

Prodi vuole mettere insieme neocomunisti, socialdemocratici, riformisti e moderati che non starebbero insieme nemmeno in Paesi di consolidato bipartitismo. Non è il bipolarismo ad essere imperfetto, è la missione che è impossibile. E gli elettori ormai diffidano delle imitazioni.

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