«Voglio andare in Europa per fare l’agit-prop»

nostro inviato a Torino

A mezzogiorno in punto Gianni Vattimo, 73 anni, l’inventore del «pensiero debole» attraversò via Po e venne a sedersi a un tavolino all’aperto del caffè Fiorio, giusto dirimpetto alla sua grande casa nobile e vecchiotta (tre piani a piedi, però). «Scusi, le spiace?» aveva detto amabile, spostando di sedia il mio giacchetto. E si era seduto con le spalle rivolte alla strada, in modo da intercettare con lo sguardo i disillusi, i neghittosi, gli incerti, i ritardatari che transitavano sotto i portici, mesmerizzandoli. «La tecnica è guardare la gente negli occhi, fisso. Uno sguardo, il tuo sguardo che dice: sì, sono io, si ricordi di votare per me», mi aveva spiegato.
Il week end era stato un momento di grande goduria narcisistica e di voluttuosi adescamenti elettorali, per il filosofo che una volta diede del figlio di puttana e della cloaca umana a Cecchi Paone (rimediando una querela che gli costò diecimila euro) e di «picchiatori» ai tirapiedi del comunista Marco Rizzo (altra querela, altri cinquemila). Sabato Vattimo se ne era andato avanti e indietro per via Roma, piazza Castello, piazza Vittorio: quella che i torinesi chiamano «la passeggiata del re» perché sua maestà poteva concedersi ai suoi sudditi senza bagnarsi, in caso di maltempo. Pari avanti tutta, dunque, come un incrociatore da battaglia, avanti e indietro, sempre guardando la gente dritto negli occhi, come vuole la regola del candidato. E a chi lo salutava, riconoscendolo, non aveva mancato di ricordare, civettando: «Ha già fatto il suo dovere?».
In mattinata, prima di tornare a battere il marciapiede (nel senso buono, si capisce) Vattimo aveva fatto la sua visita di dovere al cimitero, dove riposano i due grandi amori della sua vita: Giampiero, morto di Aids a 42 anni, nel ’93, e Sergio, ucciso a 41 anni da un cancro ai polmoni nel 2003. Lui dice che la domenica va a coltivare il suo senso di colpa «per essere sopravvissuto». Poi però, dopo aver elaborato il lutto, il vedovo si è innamorato di nuovo. Prima di un cubista, Stefano, che ha 31 anni, e poi di un immigrato brasiliano, Luiz, un bel morettone che ne ha 28 e abita con lui. Certo, gli dissi: a 73 anni, certi ardori si saranno attenuati... «Be’, è seccante», aveva convenuto, «perché certe cose non si possono più fare, neanche con le iniezioni alla base del pube, come fa uno che so io...» Ma poi, aveva concesso, «in realtà mi accontento di far loro da papà. Mi prendo cura dei loro bisogni, mi fanno compagnia...».
Ecco. L’articolo è stato declinato al passato remoto, fin qui, perché stamani tutto questo, e il di più che andremo a raccontare, parrà una storia del passato. Stamani, la sola cosa che conterà è sapere se Gianni Vattimo tornerà a sedersi su uno scranno a Strasburgo, o se i trentacinquemila euro che ha sperperato correndo il Piemonte, la Lombardia, la Liguria e brandelli di Val d’Aosta, stancandosi come una bestia, saranno stati invano.
Ora che le ombre della sera avvolgono la città, e il gran momento si avvicina gli domando: perché si ricandida? Bramosia di denaro? Ansia di visibilità? Voluttà di protagonismo? «L’aspetto esibizionistico certo conta - ammette -. Non ci si mette in politica solo per amore della causa. Quanto al denaro, la volta scorsa prendevo 9 mila euro netti. Ora sarebbero 7.500, più un portaborse pagato dal Parlamento europeo. Tanto che mi sono chiesto: ma ne vale la pena?».
Candidato per l’Italia dei valori di Di Pietro. Un «uomo di quart’ordine. Una barzelletta. La vergogna dell’Italia», per dirla con uno sdegnato Franco Zeffirelli. Vattimo non abbocca. Sorride. «Vado con Di Pietro per offrire un’alternativa, una via di scampo agli elettori di sinistra delusi dal Pd, che è tutto tranne che un partito di sinistra, e dagli altri comunisti, che non hanno spiegato alla gente perché si sono divisi. Se ci sarà una buona affermazione dei candidati di sinistra all’interno dell’Idv lavoreremo per fare del partito il nucleo della nuova opposizione di sinistra».
Se perde, pazienza. «Ci leggerò un segno della Provvidenza. Ogni tanto, del resto, mi dico: ma chi me lo fa fare? Chi me lo fa fare ad andare in Tv a discutere con Borghezio, il leghista, e la Santanchè, che è una al di sotto del bene e del male? Faccio la politica per dovere civico. Quand’anche mi paghassero molto, sarebbe sempre troppo poco per le umiliazioni cui mi devo sottoporre. Se mi votano, come Berlusconi potrò dire: sono sceso in politica», e accompagna il termine «sceso» con un gesto della mano che vuol dire: rasoterra. «Se non mi eleggono, pazienza. Peggio per loro».
La domenica del candidato Vattimo non è stata niente di speciale. Il cimitero, l’incontro col giornalista, due vasche in centro, ancora, fra i turisti e i suonatori di fisarmonica e flauto traverso che tendono le loro note ai viandanti in cambio di un obolo, tra lo Sfashion cafè ("bar italiano first in the world", dice l’insegna del locale di Piero Chiambretti) e la lapide, girato l’angolo, in via Carlo Alberto, dove abitò Nietzsche. Chiacchierando di Claudio Magris («il mio candidato al Nobel, visto che a me, troppo radicalmente antisistema non lo daranno») e di Umberto Eco («il monumento di se stesso, un trombone che io ammiro sfrenatamente. Ma pontifica con le sue bustine e i suoi articoli, da gatto prudente che amministra senza coinvolgersi pienamente la sua fama e il suo carisma»).
Nel 2004, reduce dalla clamorosa trombatura alle europee (correva per i Comunisti italiani) Vattimo si era consolato pensando a quale barba in fondo era sfuggito. «Ma che cavolo vado a fare, mi chiedevo ogni tanto. Un posto dove si discuteva dell’altezza dei parafanghi delle auto e della lunghezza dei porri, si figuri». Raccontò, quella volta, che al Parlamento aveva occupato un seggio tra Volcic e Veltroni.

«Quando c’erano le votazioni davamo delle gran botte sul tavolo per svegliarci a vicenda», aggiunse. Dunque, perché riprovarci? «Perché voglio andare a fare l’agit prop, puntando a modificare l’istituzione rivendicando il diritto per il Parlamento di eleggere il presidente e i commissari».

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